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Tre grandi scrittori calabresi (Gioacchino Criaco, Mimmo Gangemi, Santo Gioffrè), il cui successo nell’arte della scrittura del mondo reale li ha proiettati, per vie diverse, nella finzione cinematografica (Anime nere, Il giudice meschino, Artemisia Sanchez), delineano attraverso la loro testimonianza una Calabria malinconica, triste e, soprattutto, difficile, nonostante abbiano tentato in tutti i modi di restituire immagini qua e là positive. Ma la sensazione complessiva che se ne ricava è di una regione con un pesantissimo fardello di negatività. Tanto che Mimmo Gangemi, con questa consapevolezza e grande senso di responsabilità, si è recentemente definito «un pentito dei romanzi di ’ndrangheta» perché «alimentano il mito della terra irredimibile». Nello stesso film Anime nere, tratto dall’omonimo famoso romanzo di Gioacchino Criaco, capace di emanare dalle sue pagine persino gli odori dell’Aspromonte, in fondo emerge la violenza di una terra condannata a rimanere per sempre «lo sfasciume pendulo in mezzo al mare» di Giustino Fortunato, non a caso assai contrario al regionalismo. È colpa dello Stato, della Regione o dei calabresi? Noi calabresi, poveri di una Calabria povera, siamo i primi responsabili.
Criaco, Gangemi e Gioffrè, sono figli di quella “ricchezza della povertà” di cui ci ha parlato Giuseppe Berto, dal promontorio di Capo Vaticano, un “immigrato al contrario”, ma tanto da subire il fascino della Calabria e da introitarla nel suo – ma ormai molto diffuso – male oscuro. Gioffrè, in Ho visto. La grande truffa della sanità calabrese (Castelvecchi 2020) non nasconde l’orgoglio di descriversi «cresciuto in mezzo a una campagna selvaggia, dove – scrive – vedevo solo le mani callose di mio padre contadino e la schiena curva di mia madre raccoglitrice di olive», così come non ha paura a denunciare l’arroganza e il disprezzo di quella classe dirigente «agevolatrice del placido andare delle cose» della Calabria. È, quella di Gioffrè, una delle tante coraggiose rappresentazioni del male-essere meridionale e soprattutto calabrese che ci fa dire che lo Stato non c’è (e che purtroppo c’è la Regione). In questo c’è una corresponsabilità di tutti i calabresi che, oltretutto, selezionano attraverso il voto e l’astensionismo una classe dirigente capace di peggiorare le condizioni generali della Calabria, in forme più gravi di come i Borbone l’avevano consegnata all’Unità d’Italia.
Se i giovani migliori, possibile classe dirigente che potrebbe “redimere” la Calabria, scappano, la responsabilità non può essere soltanto dello Stato. Se in questa regione ci sono «congreghe» dappertutto e mille associazioni e mille “locali” di ’ndrangheta a rappresentare due milioni di particolarismi, probabilmente la rappresentanza politica è assente, incapace di affrontare i bisogni generali o complice di «una banda di lestofanti», scrive Gioffrè. Si può scegliere il paradigma, ma il risultato non cambia. Emerge comunque la piena consapevolezza di «ciò che si può nascondere dentro e nelle profondità delle viscere di questa infelice terra», che determinano le differenze dei diritti tra nord e sud, di cui siamo soprattutto responsabili noi calabresi, non certamente i piemontesi di oggi che respirano aria di Francia. Anche il caporedattore Paolo Toscano, sulla «Gazzetta del Sud» del 3 gennaio 2017, ha scritto che «la coraggiosa scelta di Gioffrè poteva offrire effetti straordinari. Purtroppo, non è stato così perché, come spesso accade nelle vicende nostrane, quando qualcuno sta per realizzare qualcosa di importante viene allontanato». Così è stato per l’autore di Ho visto, allontanato dall’Asp 5 nella sua qualità di commissario, con il fine che tutto rimanesse immutato. E lo Stato (che non c’è) ha la sua responsabilità, quanto la Regione (che c’è).
Una storia, questa, che va ben al di là dei fatti e delle parole di Gioffrè. Sono gli effetti sui “diritti” e sulla funzionalità dell’organizzazione territoriale che determinano le differenze regionali, in termini di qualità dei servizi e di tutela dei cittadini. «I gruppi di potere – scrive Franco Ambrogio – e il coagulo di interessi che dominano attraverso la spesa pubblica improduttiva» sono stati più determinanti della ’ndrangheta, tanto che il «depauperamento della società meridionale causato dall’emigrazione giovanile qualificata può divenire irreversibile e rendere impossibile qualsiasi ipotesi di trasformazione».
La fierezza dell’arroganza così come la mancanza di effetti positivi sull’economia delle numerose opere pubbliche realizzate, soprattutto quelle dei Comuni, contribuisce ulteriormente a «rendere impossibile qualsiasi ipotesi di trasformazione». Come può essere ancora nascosta l’incapacità di esercitare l’autonomia regionale che, quanto il municipalismo, rappresenta il male storico nella vita civile, pubblica e istituzionale della Calabria?
La subalternità rispetto alle Regioni del Nord in materia del diritto alla salute – l’emigrazione sanitaria, non è un’invenzione – è aumentata per colpa dello Stato o perché nella Calabria «si è via via sedimentato – come scrive Gioffrè – un ceto politico-burocratico, allargato a determinati gruppi professionali e di imprenditoria, che gestisce il potere e resiste a ogni possibilità di cambiamento»?
Nel quadro attuale della Calabria – regione dove l’assistenzialismo si incunea nel processo di modernizzazione senza strutture produttive e servizi civili funzionanti – c’è soltanto da augurarsi che cresca la consapevolezza che la soluzione possibile stia soprattutto nel totale abbandono dell’autonomia regionale. Pensiero che – in tempi non sospetti – è stato di Giustino Fortunato, dei liberali di Benedetto Croce, di Francesco Saverio Nitti, Fausto Gullo, Giuseppe Di Vittorio (che peraltro si era dichiarato contrario alla delega per la sanità) e, ultimo in ordine cronologico, Giorgio Almirante. Sicuramente una battaglia difficile, forse di più di quella contro la ’ndrangheta.