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La differenza tra le due forme di città non è soltanto geometrica: lo skyline, ovvero il profilo che una città disegna nell’aria suggerisce molto sulla qualità della “forma” di governo urbano. Lo skyline offre una modalità di lettura, di interpretazione delle infinite declinazioni politiche, sociali ed estetiche.
La breve storia di Lamezia, città giovane, “sessantottina” come data di nascita, offre un’occasione di riflessione unica nel suo genere, sebbene il suo panorama culturale dia la netta sensazione che non esiste la possibilità di avere verità a portata di mano. Soprattutto in questo preciso momento storico in cui tutto è confuso, offuscato, poco chiaro, facendo il paio con il politically correct molto in voga, senza confini tra le diverse aree sociopolitiche.
Comunque, perlomeno in ambito storiografico, se le semplificazioni non aiutano a fare chiarezza sulla complessità (Paolo Mieli, Il tribunale della storia. Processo alle falsificazioni, Rizzoli 2021), non c’è dubbio che i fatti, gli eventi, rimangono inconfutabili in quanto tali e possono contribuire, in modo sostanziale, ad affinare una chiave interpretativa, forse utile per una nuova modalità di governo del territorio.
Per rispondere all’interrogativo, bisogna partire dalla constatazione della purtroppo persistente difficoltà di dare come assodati i contesti e le circostanze che hanno dato origine all’idea di una città nuova, in un primo momento (1927) di semplice aggregazione tra due centri urbani (Sambiase e Nicastro), poi di ipotesi di fondazione (1939) e più tardi (1968) di aggregazione tra i tre centri che oggi costituiscono la città. Un alternarsi di soluzioni, in cui l’unica costante nel tempo era il nome “Lamezia”.
In ogni caso almeno la cronologia dovrebbe aiutare a fare chiarezza, in quanto mette in ordine i fatti che costituiscono inconfutabilmente dei punti chiave di un’analisi storica. Poi si può essere d’accordo o meno, ma non si può alterare l’evoluzione (o l’involuzione) degli eventi ingenerando ombre, se non falsificazioni, soprattutto se sull’argomento esiste un ampio approfondimento consolidato, da cui, in ogni caso, bisognerebbe partire. La prima sensazione che traspare dalle diverse posizioni e sfumature emerse nel tempo sull’argomento rinvia direttamente, dal dopoguerra in poi, ad una sorta di paura connessa al termine “fascista”, giorni addietro oggetto di una specifica campagna culturale del quotidiano “la Repubblica” e rianalizzato, con l’adeguata moderazione e il giusto distacco, da Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere della Sera”.
Se si guarda alla ricostruzione della nascita di Lamezia, con la stessa serenità di giudizio di Ernesto Galli della Loggia e sulla scorta dell’ampia letteratura ormai consolidata sull’urbanistica fascista, forse si possono cogliere elementi che consentono di progettare un efficace, positivo e costruttivo approccio al governo della città e del territorio. Non solo, ma dalla corretta interpretazione del passato si potrebbe ricavare un enorme vantaggio in termini di costruzione delle relazioni con il cosiddetto “circondario”, con l’obbiettivo di fare rete concreta con tutti i vicini centri abitati, sulla base della pari dignità.
Il dato di partenza è che Lamezia contiene in sé, storicamente, quegli elementi di debolezza, di fragilità, che è costato un costante isolamento politico e la progressiva perdita di capacità contrattuale, determinata proprio dalla incapacità di fare “massa”, non tenendo conto che il numero è (o avrebbe potuto essere) potenza, secondo un noto refrain, soprattutto in tempi di democrazia.
La forza è soltanto fondata sull’unità giuridica di tre Comuni, minata però culturalmente al suo interno dalla mancanza di coesione e volontà popolare, trasformata nel tempo in sostanziale debolezza e dimostrata soprattutto dall’estenuante e ormai tradizionale lentezza decisionale (a titolo di esempio: per decidere e realizzare la sede del nuovo Municipio non è bastato un quarto di secolo) che, al di là della validità, comunque assai opinabile, delle scelte operate, ha fortemente inciso sul ritardo dello “sviluppo” in generale, su quello urbano in particolare e soprattutto su una credibile competitività territoriale autoctona e autogenerata.
Qual è il contesto storico in cui nasce l’idea di Lamezia?
L’idea si fonda sulla complessa e articolata attività di riorganizzazione territoriale e amministrativa operata da parte del fascismo, che istituiva ben 17 nuove province e aveva il disegno di fondare un numero indeterminato di nuove città – sull’esempio delle città di fondazione durante l’Impero romano – nell’ambito di una nuova visione del ruolo dell’urbanistica, non più limitata a dare ordine ai contesti urbani ma ad allargare la sua competenza alla pianificazione del territorio, derivata dall’esperienza inglese e in particolare dalla Grande Londra (Greater London) e che, per esempio in Calabria, si traduceva nel 1927 nella Grande Reggio con l’accorpamento di ben 14 comuni. E non è un caso che proprio nello stesso anno Salvatore Renda (candidato nel “listone” fascista e rieletto) proponeva – quando già si dibatteva in ambito nazionale del progetto delle bonifiche con la regìa di Arrigo Serpieri – l’unificazione (peraltro subito fallita) dei comuni di Sambiase e Nicastro. Un’idea, questa, non condivisa localmente e che sicuramente portava con sé il timore degli effetti negativi che avrebbe comportato la nascita di una città sui paesi del circondario, nonostante un nuovo insediamento urbano (di fondazione, però) fosse visto da parte del regime come “naturale” conclusione delle operazioni di bonifica idraulica, ovvero come segno fisico, tangibile, della definitiva “conquista della terra” per il suo fine primario, l’agricoltura. Del resto non è certamente da sottovalutare che, sul finire degli anni Venti, Lucio Tagliamonte già proponeva la realizzazione di un nuovo centro abitato proprio nei pressi di località Marina di Maida (oggi territorio del nuovo Comune di Sant’Eufemia Lamezia, la cui nascita sarà ufficializzata più tardi, nel 1935). Ed è la nascita di questo nuovo comune a provocare lo scontro tra lo Stato fascista “usurpatore” e i podestà dei comuni più vicini (ben cinque) che si vedevano “spogliati” di parti cospicue dei loro territori con un atto di forza (per decreto, per legge appunto). Proteste non digrignate ma espresse a voce alta, con tanto di opuscoli divulgativi, negli anni in cui manifestare la propria opinione contro la volontà del regime era reato. Pertanto, il Piano regolatore per la nuova città, elaborato nel 1939 da Aldo della Rocca, uno dei più grandi progettisti dell’epoca, non nasceva certamente sotto i migliori auspici fino a venire affossato definitivamente con l’avvento della democrazia repubblicana. Un progetto rimasto nei cassetti, perché “fascista”. La stessa cosa non avviene invece per quanto riguarda l’idea fascista di una città “forte”, accentratrice, con una grande capacità gravitazionale, che aleggia anche nel dopoguerra con il fine di realizzarla all’interno della Piana di Sant’Eufemia, ormai “redenta” e pronta ad accogliere qualsiasi ipotesi di sviluppo, soprattutto per la presenza dell’importante snodo ferroviario statale di fine ottocento.
L’idea, ripresa nel 1963 e portata a conclusione nel 1968, conserva però gli stessi elementi originari di forza e di debolezza, con la differenza che nella democrazia repubblicana viene prefigurata – attraverso il primo strumento urbanistico generale del 1971 – una città, frutto di aggregazione, di semplice fusione amministrativa, tra centri esistenti, con spunti di unione fisica d’ispirazione organica e lecorbusiana potenzialmente esprimibili in un linguaggio architettonico verticale, multiforme, elastico, e quindi libero, rispetto al precedente disegno di città nuova orizzontale di Aldo della Rocca, caratterizzato dalla rigida uniformità tipologica e stilistica propria del passato regime. La Lamezia della democrazia repubblicana pertanto assume, per la previsione di un eccessivo sovradimensionamento rispetto ai reali fabbisogni residenziali, i lineamenti di una città informe e respingente sul piano della capacità di governo politico-amministrativo di fenomeni complessi sia di ambito territoriale che urbano, comprimendo ogni capacità di guida e di aggregazione dei piccoli paesi vicini, che perciò si arroccano sul piano politico-amministrativo in posizione di difesa, come anticamente lo erano contro i turchi. Così, con lo strumento urbanistico del 1971, rimangono sostanzialmente confermati i limiti relazionali, ormai storicizzati, derivanti soprattutto dalla mancanza di coesione interna della nuova entità amministrativa e dalla perdita progressiva degli antichi rapporti funzionali con il circondario. I caratteri di un’entità amministrativa usurpatrice, egocentrica e urbanocentrica rimangono incisi nella previsione di un mega Centro Direzionale (ovviamente, mai realizzato), concepito, senza il buon senso della proporzione, sul modello di grandi città come Napoli, Roma, Bologna, e dalle gigantesche aree di espansione, che si apprestavano a favorire lo spopolamento del circondario. Un’euforia che è costata, per Lamezia, il venir meno del ruolo di centro di riferimento “metropolitano” rispetto al suo vasto e storicamente prezioso hinterland. Per tutte queste sintetiche ragioni, Lamezia ha costruito intorno a sé l’immagine di una città non madre ma matrigna: un modo di proporsi, chiaro, inequivoco, capace di evidenziare in ogni linea urbanistica programmata nel tempo una volontà fagocitatrice e, però, autolesionista. Un peccato originale ancora non sufficientemente espiato o risolto. Una cosa rimane comunque certa: l’idea originaria della “città nuova” Lamezia è fascista e la sua attuale forma è democratica.