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L’8 settembre del 1975 il quotidiano «La Stampa» titolava Lamezia Terme città sulla carta. Perché ancora la mafia? La firma dell’articolo è autorevole: Enzo Siciliano (Roma 1934-2006), figlio di due calabresi e genero di Concezio Petrucci, architetto e progettista di riconosciuto valore – discepolo di Marcello Piacentini e Giovanni Michelucci – che ha avuto un ruolo di primo piano nella progettazione delle città nuove del periodo fascista. Due elementi importanti che spiegano le ragioni dell’attenzione di Siciliano per Lamezia, città della Calabria con significative radici nel fascismo. Ma Siciliano era anche reduce dalle vacanze estive sul Tirreno e dagli umori esalati dalla risacca delle notizie affioranti sulle acque del Golfo di Sant’Eufemia. Non un giornalista qualunque, ma scrittore di prestigio e figura di spicco della cultura italiana della seconda metà del Novecento, con frequentazioni come Moravia e Pasolini, che dedica del suo tempo a Lamezia. Perché?
Lamezia, città giovanissima, nata da poco (1968), è, suo malgrado, al centro dell’attenzione nazionale, non per un’”invenzione” urbanistica tardiva e improduttiva, che interessa i pochi addetti ai lavori di provincia, ma per l’eco degli accadimenti che occupano quotidianamente la cronaca nera dalla fine degli anni Sessanta, con una lunga catena di omicidi e di sequestri di persona che fanno prevalere l’aspetto “antropologico” su quello urbanistico. Si passa, in poco tempo, dalle antiche “guardianie” al contrabbando di sigarette e alle faide (5 morti in poche settimane) e ai sequestri di persona (nove dal novembre 1970 al ’74) tanto da meritarsi il titolo di capitale dell’industria del sequestro.
Una città la cui nascita anticipa di pochi mesi il “sessantotto”, che porta con sé i risvolti negativi locali legati agli scontri politici che per molti versi relegano in secondo piano l’eco degli entusiasmi della nuova Brasilia italiana al centro del Mediterraneo. «Una festa – scrive Siciliano – tutta violentemente apparente e vuota di ogni sostanza. Dà ragione soltanto a una razza di speculatori villani, lo sparuto ceto medio di quaggiù incapace, nella sua maggioranza, di assolvere ad alcuna storica ragione o ad alcun motivato destino».
«A Lamezia Terme, come ormai è certo, si annida il cervello dell’industria del sequestro» [per un’analisi del fenomeno mafioso nel suo complesso non si può prescindere dalla lettura di C. Cavaliere, Una tranquilla città, 1989, e di M. De Grazia, Vittime dell’oblio, 2009]. Ma rivolgendosi a lettori prevalentemente del nord, Siciliani spiega: «Cosa è Lamezia Terme, paese che nessuna carta geografica ancora segna con esattezza? […] A parte qualche cartello stradale e una linea di autobus […] Lamezia Terme resta comunque un’idea: l’idea d’una rivendicazione locale che ruota attorno al centro manifatturiero di Nicastro e al futuro aeroporto internazionale che dovrebbe sgravare il traffico di Fiumicino […]. Qui è l’epicentro della mafia ultima versione, ma che rinnova l’antica tradizione del sequestro per rapina. Chiunque può raccontarvi storie di briganti che nei secoli scorsi esigevano dai padroni e massari riscatti. Aggiungono che questo è un connotato antropologico locale […]. La mafia vuole denaro, ma vuole anche potere. Forse è il modo, accenna qualcuno, attraverso il quale una terra depressa come questa tenta di guadagnare un vertice da cui è stata esclusa […]. Un magistrato [Francesco Ferlaino, ndr] ucciso di recente, minacce, riscatti pagati nei bar della zona: Lamezia Terme non sembra attraversata da dubbi, da crisi, continua a vivere il suo essere città, una città per ipotesi, una città sulla carta». In sintonia, Gigi Ghirotti, il 16 marzo 1974, su un quotidiano nazionale aveva scritto in un precedente articolo dal titolo significativo, L’ignota mafia: «le nuove fonti di ricchezza forzarono la mafia a lasciare le campagne per la città. S’occuparono di edilizia, di nettezza urbana, di strade, di lavori pubblici, di contrabbando, di politica e di pubblica amministrazione, di piani regolatori».
Parole che non hanno bisogno di alcun commento e che spiegano la palude su cui si fonda una grandezza mai nata che, di contro, sviluppa il desiderio di crescita della mafia locale attraverso il governo diretto di quella enorme distesa di cemento che le “carte” lasciavano prefigurare: una centralità dominante, sul piano urbanistico ed economico, aspetti rispetto ai quali le ’ndrine non nascondevano il proprio interesse. Così alla nascente industria manifatturiera (ex Sir) ed edilizia si affiancava, in parallelo, l’industria del sequestro il cui progetto era finalizzato al dominio complessivo del territorio, attraverso l’acquisizione di una grande capacità economica. Il sugello del dominio mafioso sul territorio è documentato nel 1991 dal codice d’onore per le «sentinelle di omertà», rinvenuto in un casolare nelle colline del nicastrese, a firma dell’Anonima sequestri: «sette belle cose: omertà, fedeltà, politica, falsa politica, carta, penna e sfera».
Un dato significativo, su tutti: la notte del 25 settembre 1971 «un ordigno incendia gli uffici comunali» di Lamezia, così titolano i quotidiani locali e nazionali. Il commento laconico di molti giornalisti è di questo tenore: un incendio doloso distrugge in particolare documenti tecnici, «vi sono molti interessi in gioco, tra cui quello delle aree edificabili, ma le lungaggini burocratiche compromettono la realizzazione di nuovi edifici; il lungo iter di approvazione del piano regolatore ha bloccato ogni attività in molti settori della zona». Considerazioni molto ben “informate” e precise, se subito dopo i fumi di quell’incendio verrà approvato il Programma di fabbricazione dal Provveditorato regionale alle opere pubbliche (9 ottobre 1971).
Con quell’incendio, simbolicamente si bruciava anche la Lamezia di carta, la Brasilia al centro del Mediterraneo, fatta di disegni e lucidi a inchiostro di china. Il “poi” sarà invece l’impietosa china della città, marchiata in maniera indelebile dal condizionamento dei fatti di cronaca nera del periodo 1970-’75 (anno, quest’ultimo dell’uccisione del giudice Francesco Ferlaino e della morte del sostituto procuratore Vincenzo Smirne, che stava indagando sulle speculazioni edilizie nella costa lametina) e di tutti gli ultimi cinquanta anni, causa principale che impedirà lo sviluppo libero delle capacità individuali interne ed esterne alla città. Si esaurisce così, da subito, la potenzialità attrattiva del territorio di risorse pulite e autopropulsive, che invece saranno inversamente proporzionali alla crescita esponenziale del dominio mafioso, in tutte le sue forme attive, incisive, inesaurite e soprattutto pervasive dal punto di vista culturale.