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Il brigantaggio in Calabria dopo l’Unità: aspetti dinastici, diplomatici, politici e militari
Scritto da lametino9 Pubblicato in Francesco Vescio© RIPRODUZIONE RISERVATA
Nel presente scritto ci si prefigge di delineare nei termini essenziali la questione dell’esplosione del fenomeno del brigantaggio nelle regioni meridionali continentali dopo l’Unità; si cercherà di evidenziare non solo i vari momenti violenti della ribellione e la conseguente repressione militare ma anche le forze in campo, che si scontrarono in Italia ed in Europa in vari modi per quasi tutto il primo decennio post-unitario. La questione impegnò il nuovo re Vittorio Emanuele II, il Governo, il Parlamento, l’esercito, la magistratura civile e militare. Le regioni meridionali continentali furono coinvolte in maniera differenziata a secondo della diversità dei territori ed in questa sede ci si occuperà, per ragioni di spazio espositivo, solo di alcuni eventi più particolareggiati della Calabria, ma si deve avvertire che avvenimenti decisivi e cruenti si svolsero in modi più o meno simili in altre regioni del Sud continentale. Innanzi tutto si ritiene opportuno riportare, sinteticamente, alcuni eventi decisivi per evidenziare la complessità della situazione e la sua evoluzione nei momenti più significativi: 1) sbarco dei Mille a Marsala l’11 maggio 1860; 2) Francesco II, re delle Due Sicilie, il 25 giugno concesse lo Statuto ma con tale atto non conseguì alcun risultato concreto; 3) sbarco dei Garibaldini in Calabria presso Mileto (RC) il 19 agosto: 4) resa del generale borbonico Giuseppe Ghio alle truppe garibaldine a Soveria Mannelli (CZ) il 30 agosto; 5) Francesco II : “ … pubblicato un mesto e dignitoso addio, salpò la sera del 6 settembre, sopra una nave da guerra rimastagli a stento fedele, verso la città di Gaeta dove si era già ridotta la sua famiglia. Il giorno dopo il Garibaldi, insieme con il Cosenz e con parecchi alti ufficiali, faceva il suo ingresso nella grande metropoli fra gli applausi d’immensa moltitudine, la quale poté vedere che le truppe borboniche, rimaste nei castelli gli presentavano le armi!” (Francesco Lemmi, Storia d’Italia fino all’Unità, Sansoni, Firenze, 1965, p.593); 6) 11-29 settembre conquista delle Marche e dell’Umbria, terre pontificie, da parte dell’esercito sardo; 7) 1°-2 ottobre battaglia del Volturno e sconfitta dell’esercito borbonico da parte dei Mille; 8) il 21 dello stesso mese si tenne il plebiscito di annessione delle regioni meridionali continentali al regno di Vittorio Emanuele II; 9) 27 gennaio 1861 elezione del primo Parlamento italiano, votarono solo i maschi adulti con un censo elevato, in altri termini con un reddito cospicuo; 10) 17 marzo proclamazione di Vittorio Emanuele II << re d’Italia per grazia di Dio e volontà della Nazione>> da parte del Parlamento subalpino. Francesco II a Gaeta resisteva all’assedio dell’esercito di Vittorio Emanuele II, contando sulla protezione della flotta francese di Napoleone III e sperando nel possibile aiuto da parte di monarchi legittimisti con alcuni dei quali aveva forti legami dinastici; i Borboni assieme agli Asburgo erano allora fra le più importanti famiglie regnanti d’Europa; lui era figlio di Ferdinando II, re delle Due Sicilie, e di Maria Cristina di Savoia, a sua volta figlia di Vittorio Emanuele, re di Sardegna, e di Maria Teresa d’Asburgo- Este, era, in definitiva, parente di Vittorio Emanuele II. Lui sperava in concreti aiuti diplomatici ma anche militari da parte dei sovrani legittimisti di allora ed, inoltre, aveva l’appoggio molto influente del papa Pio IX, anche questi ostile a Vittorio Emanuele II per la politica liberale di Cavour non favorevole al clero e per la recente annessione delle Marche e dell’Umbria. Nel brano successivo viene esplicitata la decisa presa di posizione del sovrano ed il suo programma per il ritorno sul trono del Regno delle Due Sicilie: “Francesco II fino ad allora considerato una comparsa, dimostrò un coraggio e una fermezza mai avuti prima. Formò un nuovo governo […] A Gaeta, il re lanciò subito un proclama. I traditori e i vili avevano lasciato l’esercito, chi aveva scelto di restare con il re doveva stringersi << intorno alle nostre bandiere per difendere i nostri diritti, il nome napoletano >>. Alti prelati, militari, ex funzionari, popolani iniziarono a formare intorno al Borbone un blocco di resistenza che per qualche aspetto, almeno nella sua rappresentazione, richiamava l’antico regime e la restaurazione, offrendo una base alla controrivoluzione borbonica. L’obiettivo era impedire che l’unificazione coinvolgesse anche il Mezzogiorno, la guerra si doveva combattere con l’esercito e con tutti gli strumenti disponibili.” (Carmine Pinto, La Guerra per il Mezzogiorno – Italiani- Borbonici-Briganti – 1860-1870, Laterza, 2019, pp. 46-47). L’appoggio del Vaticano e gli aiuti che giungevano da alcuni Paesi europei erano di notevole consistenza per come indicato nel testo che segue: “In realtà gli apprestamenti che si facevano nello Stato pontifico per alimentare le ‘ reazioni’ e il brigantaggio nelle provincie meridionali, meritavano ogni più vigile considerazione. Su quel territorio relativamente angusto, coincidente ormai soltanto con la regione laziale, si erano infatti concentrate ragguardevoli forze armate, costrette alla ritirata e allo sconfinamento dalla vittoriosa campagna centromeridionale dell’esercito sardo. Nei primi giorni di novembre era giunto a Terracina il corpo dell’esercito borbonico comandato dai generali Ruggero, Palmieri, e Grenet, composto da circa 12.000 uomini ben inquadrati ed armati. Quasi negli stessi giorni, il Klitsche de Lagrange sgombrava con i resti delle sue torme eterogenee la Marsica e la val Roveto e cercava riparo nel territorio pontificio dalla parte di Isoletta. Nel mese di dicembre, poi, sbarcarono a Terracina circa 10.000 uomini congedati dai migliori reggimenti della guarnigione di Gaeta, destinati, però, a raggiungere subito le loro sedi nel Mezzogiorno. A tutte queste forze, già di per sé consistenti, erano da aggiungere i resti dell’esercito pontificio disfatto a Castelfidardo, nonché i volontari legittimisti che affluivano da vari paesi d’Europa, e specialmente dal Belgio, dalla Francia, dalla Spagna e dalla Baviera, spinti dalla sete di avventura non meno che dal desiderio di battersi per la causa del trono e dell’altare.” (Franco Molfese, Storia del Brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano, 1979, p.58). L’arrivo a Napoli di Vittorio Emanuele II segnò un momento decisivo dell’unificazione: “Il 6 novembre l’esercito meridionale fu schierato in parata per la celebrazione finale, ma solo Garibaldi lo passò in rassegna. Vittorio Emanuele II non arrivò, forse per le pressioni dei regolari. Il giorno dopo il generale entrò a Napoli con il re, ma comprese che il suo momento era superato e se ne andò a Caprera, dove aveva il suo rifugio privato. L’offensiva piemontese continuò. Una serie di combattimenti, culminati il 4 novembre nell’assalto a Mola di Gaeta, costrinsero i borbonici dentro la fortezza” (Carmine Pinto, op.cit., p.71). Il conflitto continuò non solo come scontro militare, ma anche come azione politica e propagandistica per la restaurazione della monarchia borbonica; la lotta si articolò in centinaia di episodi cruenti, in cui spesso era coinvolta pure la popolazione non combattente. L’ostilità proseguì anche successivamente alla resa di Gaeta alle truppe piemontesi, comandate dal generale Cialdini per come esposto nel testo che segue: “Dopo la ripresa di Gaeta Francesco II con il suo seguito si rifugiò a Roma sotto la protezione del Papa. Dall’esilio il Borbone tentò in ogni modo di riconquistare il trono perduto […] Con la complicità e l’appoggio della corte pontificia vene ordita una cospirazione a vasto raggio. Dirigente generale era il conte di Trapani, zio del re; ministro della guerra era il conte di Trani, fratello del re; segretario generale il generale Clary. Un comitato generale si riuniva a Roma sotto lo pseudonimo di << Associazione Religiosa>>, mentre un comitato centrale risiedeva a Napoli e altri erano sparsi nei capoluoghi e in altre città importanti delle province del ex-Regno. Si prevedeva un’organizzazione generale e il giuramento degli affiliati. Preti, notabili e ufficiali erano nella direzione dei comitati; mentre operai, artigiani e contadini erano considerati come manovalanza nelle bande. La Chiesa ufficiale, che appoggiava la causa legittimista di Francesco II, non condivideva la politica del nuovo Regno Unitario sia a livello estero per la questione dello Stato Pontificio e Roma capitale d’Italia, sia a livello interno perché colpita duramente nei propri interessi... Con la soppressione di corporazioni religiose e l’incameramento e la vendita dei relativi beni ecclesiastici veniva infatti inferto un colpo pesantissimo alla Chiesa e alla sua stessa sopravvivenza in <<loco>>, Nella sua gerarchia il clero non accettava assolutamente la vendita pubblica dei beni ecclesiastici voluta dal nuovo Stato Unitario”. (Rosella Folino Gallo, La Reazione Filoborbonica nella Calabria Ulteriore II -1860 – 1865, Calabria Letteraria Editrice, Soveria Mannelli, 1997, pp.7-8). La lotta insurrezionale era intimamente connessa all’azione diplomatica e propagandistica dei Borbonici per come viene indicato nel brano successivo: “I diplomatici erano la parte più esposta e decisa dell’aristocrazia napoletana e, come l’alto clero, strettamente legato alla dinastia borbonica. Il nucleo della loro politica era la rappresentazione di un Mezzogiorno in rivolta contro l’<<usurpazione piemontese>>, l’obiettivo reale era cercare di modificare l’ostilità inglese e la linea del non – intervento di Napoleone III […] Alcuni paesi restarono nella prima fase al fianco di Francesco II: La Baviera, il cui sovrano continuò a chiamare Vittorio Emanuele II re di Sardegna, e, soprattutto, la Russia e l’Austria. Altre potenze, invece, riconobbero prontamente il Regno d’Italia. Iniziò la Gran Bretagna, seguita da una serie di Stati e soprattutto dalla Francia, nonostante le proteste dei legittimisti di Parigi. Nell’estate del 1861 il riconoscimento dei paesi tradizionalmente amici delle Due Sicilie, come il Brasile, l’impero Ottomano e il Belgio (dove maggiori furono i contrasti per la forza dei parlamentari cattolici), fu un altro colpo per Francesco II” (Carmine Pinto, op. cit. pp. 84-85). Va precisato che qualche segno di cedimento nel sostegno a Francesco II da parte di alcuni sovrani si era già manifestato nell’autunno del 1860, per come indicato nel passo successivo: “Il convegno di Varsavia tra i regnanti di Russia, Prussia e Austria si tenne il 22 ottobre e pesò come un incubo sulla politica cavuriana, con la sua minaccia di un intervento negli affari italiani, fin verso la fine del mese, quando divenne chiaro che le tre potenze si erano separate senza addivenire ad alcun accordo” ( Franco Molfese, op. cit., p.485). La lotta contro i briganti impegnò in modo estremo le forze armate del Regno d’Italia, che furono coadiuvate inizialmente dalla Guardia Nazionale, costituita da abitanti dei singoli comuni, essi non operavano al di fuori dei confini del territorio comunale, per superare tale forte limitazione fu istituita La Guardia Nazionale Mobile, che poteva intervenire anche fuori dal proprio comune e così si rese la sua operatività ancora più incisiva; va rilevato, inoltre, che in tanti scontri poteva succedere che si trovassero di fronte parenti, amici, conoscenti, in quanto abitanti dello stesso luogo e questo rese la lotta contro i briganti ancora più spaventosa, feroce ed esecrabile; i militari dell’esercito erano arruolati su tutto il territorio nazionale e ciò rendeva meno probabile che potessero scontrarsi con dei conoscenti. Lo Stato unitario per superare l’emergenza del brigantaggio ricorse a misure straordinarie, che soprattutto nell’applicazione sul campo ed in situazioni di emergenza, potevano ledere i diritti garantiti dallo Statuto; fra i provvedimenti emergenziali adottati in quel periodo si ricordano: lo stato d’assedio, il controllo delle comunicazioni, i tribunali militari, la fucilazione dei briganti colti con le armi in mano, le taglie contro i capobanda ritenuti più pericolosi dalle autorità, l’arresto dei manutengoli, cioè di coloro che aiutavano i briganti con cibo, vestiti, armi , informazioni etc.; la norma più discussa fu la legge Pica. I reati più contestati ai briganti furono: lotta armata, omicidi, sequestro di persona, assalto ai mezzi di trasporto, estorsioni, incendi di abitazioni, uccisioni di animali d’allevamento. Come sopra indicato in questo scritto ci si soffermerà principalmente sulla situazione calabrese, per come riportato nel testo successivo: “Questo delicato passaggio [Dell’Unità italiana, N.d.R.] veniva a coincidere con una realtà politica e socioeconomica difficilissima, e cioè con il periodo di iniziale disordine e poi di brigantaggio politico, banditismo comune e manutengolismo, di cui anche la Calabria fu vittima nei primi anni Sessanta. Per la verità- e per la prima volta nella storia- la regione calabrese risultò ai margini del grande e grave fenomeno del brigantaggio (che in quegli anni ebbe un enorme rilievo, invece, nella Basilicata, nell’Irpinia, nel Molise, nell’alta Puglia, nell’Abruzzo). Non è il caso di indagare qui sulle cause di questa inferiore presa del brigantaggio sulla società calabrese del tempo; è da dirsi piuttosto che, al di là dei dati reali, il malessere sociopolitico di Calabria godette, tuttavia, delle consuete sottolineature, giacché immaginarsi un brigantaggio non calabrese risultava una disarmante novità, il venir meno d’un collaudato cliché. Non a caso, allora , la Calabria fu ritenuta, ancora una volta, buon punto di partenza per un’impresa insurrezionale, anzi dell’unica impresa, che programmaticamente e formalmente, avesse compiti esclusivamente politici di restaurazione legittimistica: quella di José Borjés [Ufficiale spagnolo che fu mandato in missione in Calabria, dove sbarcò sulla costa ionica il 14 settembre 1861, si unì a briganti calabresi, dopo passò in Basilicata, dove combatté con la banda del capobrigante Crocco, con il quale entrò in diverbio, poi cercò di riparare nello Stato Pontificio, ma fu catturato dai bersaglieri e venne fucilato a Tagliacozzo (Abruzzo) l’‘8 dicembre 1861, N, d. R.] ispirato dal generale Clary (capo del comitato borbonico di Marsiglia), avrebbe dovuto rinnovare l’impresa del cardinale Ruffo, di sessanta anni prima. La scelta della Calabria non era- nell’opinione degli organizzatori- casuale, in virtù della conclamata tendenza dei calabresi agli odi e alle vendette [ …] ma, in realtà le basi di massa per una sollevazione erano scarse e- nei fatti – senz’alcuna idea generale che andasse al di là dei propri interessi” ( Augusto Placanica, Calabria in idea, in ‘Storia d’Italia- Le regioni dall’Unità a Oggi- La Calabria, a cura di Piero Bevilacqua e Augusto Placanica’, Einaudi, Torino, 1985, pp. 613- 614). Le ultime bande furono eliminate nei primi anni del’70; c’è da tener conto che rimanevano ancora dei fenomeni di criminalità comune in diverse aree del Meridione.