Conca di Decollatura: "Incantarsi guardando e godere nel cuore"

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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francesco-bevilacqua-foto-blog-nuova_5177a_37863_9c179_3f6c2_f8d7a_24db1_bba7a_dbf5d_6eed1_80845_92e3f_117f2_9ee48_a31fa_e8d49_ef4d1.jpgSabato mattina, prima dei temporali e delle nevicate. Un bel preludio di freddo. Complice una finestra di bel tempo provo a percorrere una nuova variante alla tappa Platania/Carlopoli del Cammino di Gioacchino da Fiore, per giugno del prossimo anno nell’ambito del nostro Festival delle Erranze e della Filoxenia. Dalla Cona del Corvo, nella Faggeta di Condrò, cominciamo la discesa verso Cerrisi attraverso la valle del Torrente Terrate. Nel mattino limpido la conca di Decollatura risplende di prati, boschi, villaggi, sullo sfondo della Sila innevata. La linea ferrata delle ex Calabro-Lucane completa un quadro da sogno, come lo sfondo di un dipinto rinascimentale. Si addice alla veduta il verso omerico: “a venir qui anche un nume immortale doveva incantarsi guardando, e godere nel cuore”. Perché in questi luoghi la bellezza è fuori dal tempo, è e rimarrà eterna, qualunque cosa possa fare l’uomo alla natura. Come ai vecchi castagneti della valle, oggi tutti ridotti a cedui. Solo un lembo di antico castagneto da frutto resiste attorno a Case Dani, il minuscolo grumo diruto di abitazioni di pietre nei pressi di quella che era un tempo una sorgente accudita con amore ed oggi è solo un pantano. Questo piccolo pezzo di paesaggio storico è un vero miracolo. Chi ha risparmiato quegli alberi merita riconoscenza. Più in basso, nella boscaglia, piccole rupi con due scavi a coppella, come tanti ne abbiamo rinvenuti in tutta l’area del Reventino. Questi segni sulla roccia potrebbero essere dei banali scavi fatti dai pastori per ragioni diverse oppure graffiti preistorici ben noti agli archeologi. Avrebbero, in questo caso, una funzione cultuale. Scendiamo sino al fondovalle dove diversi rivi si congiungono. Un uomo è andato a far legna. Chiediamo informazioni sul percorso che intenderemmo fare.

“Che bella carta che avete!” dice, osservando il mio stralcio della topografia dell’Istituto Geografico Militare. Leggo nei suoi occhi curiosità nell’individuare i toponimi scritti sulla carta e confrontare la loro posizione con quella che essi invece occupano nella sua mappa mentale. Queste persone sono legate ai loro luoghi da un cordone ombelicale. Mentre il mondo delle città e delle metropoli prosegue la sua pazza corsa verso il futuro, che annulla il tempo trascorso, la gente delle campagne e dei paesi si rifugia, invece, nel passato, in ciò che resiste al tempo che avanza, ineluttabile. È il senso stesso del vivere immersi nella natura, dell’essere tagliati fuori dalla modernità assolutista, dall’obbligo di competere ed innovare, da un certo neo-illuminismo che va tanto di moda oggi. È una diversa concezione della vita. Un tempo l’avremmo bollata come arcaica. Oggi qualcuno comincia a capire, invece, che è solo un diverso modo di vivere, una scelta esistenziale forte e precisa. I tedeschi direbbero “weltanschauung”, ossia modo di concepire il mondo. Ma qui è una concezione che non serve per filosofare. È utile, piuttosto, a comprendere la propria presenza in quel Mondo, appartato e fragile, fuori dalle protezioni e dalle illusioni urbane. L’uomo indica sulla carta e pronuncia i nomi dei luoghi: Micciullo, Segnale Galera, Fiume Grande, Galice di Stocco. Con tenerezza, come fossero i nomi di suoi familiari. 

Proseguiamo. Un anziano pastore sale dal villaggio con le pecore. Vorrei fermarmi a parlare con lui, ma è troppo intento a seguire il gregge: gli animali, il pascolo sono la sua priorità, in quel momento. Imbocchiamo una deviazione che ci porta in luoghi appartati, con vecchie baracche di legno e magnifici filari di cerri colorati dall’ultimo sfarzo d’autunno. Sino a sbucare sul fondo della conca. Attraversiamo la ferrovia e ci inoltriamo nei pianori splendenti di prati, con fattorie colme di segni del lavoro della terra. Salendo verso una bassa cresta tra i cerri, ecco due case di pietre ancora in piedi, con il classico “rapillu”, l’intonaco di un tempo, fatto di piccole schegge di scisto a protezione dei muri. Ed eccoci sul crinale. Scendiamo sul versante opposto della dorsale sino al fondovalle di Galice di Stocco. Sottopassiamo la superstrada dell’Amato, riusciamo a trovare un’instabile ponticello di legno per andare di là del fiume e poi attraversiamo altri campi, sino all’ultimo declivio prima di giungere alla nostra meta: l’agriturismo “La Rosa nel Bicchiere”. Un vecchio pastore con un altro gregge di pecore ci osserva stranito. Sta raccogliendo verdura selvatica per la minestra della sera. Gli chiedo se ancora fa il formaggio. Risponde che in questo periodo non lo fa perché le pecore devono allattare i piccoli. Anche lui ha quello sguardo interrogativo di chi si domanda perché mai qualcuno debba venire in questi luoghi senza un’utilità apparente. Non so spiegarglielo, ma noi “moderni”, noi “civilizzati”, noi “urbani”, a volte abbiamo desiderio di tornare indietro nel tempo, trovare rifugio nella densità, nella persistenza di un passato che non renda orfane le nostre vite, che ci convinca che non siamo solo corpi affannati, ansimanti proiettati verso il futuro.

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