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La maggioranza degli Italiani non si è recata alle urne in occasione dei ballottaggi. Già nel precedente articolo avevamo scritto che quasi la metà non aveva votato alle regionali. Di male in peggio. Se si prende in considerazione la partecipazione agli appuntamenti elettorali nella storia repubblicana italiana, si evince con chiarezza immediata che dalle altissime percentuali nelle tornate elettorali dei primi anni del secondo dopoguerra si è passati ai minimi storici di oggi. Il dato è ormai preoccupante. Le analisi del voto, quelle tradizionali, nella maggior parte dei casi, evidenziano sconfitte e vittorie di partiti e candidati, lasciando in secondo piano il trend costantemente negativo dell’affluenza. Il più delle volte, chi è interessato alle fortune o alle disgrazie dei candidati, vede esclusivamente chi vince e chi perde. Con il calo dell’affluenza, mediamente, va a governare una minoranza e governa per tutti, anche per la maggioranza che non è andata al seggio elettorale. Sicuramente la democrazia è in difficoltà. Non sono solo i fatti di cronaca politica e giudiziaria degli ultimi tempi ad avere determinato la disaffezione al voto. I motivi dell’astensionismo in continuo aumento sono più articolati, a volte complessi, talora contraddittori. Ultimamente nuove formazioni politiche e altre, riciclate nei programmi o nelle strategie, hanno rivelato un appeal non indifferente riempiendo le piazze e ottenendo risultati lusinghieri. Calo di ascolti dei talk show politici. Se n’è parlato all’International Journalism 2015, organizzato dall’Associazione Giornalisti della Scuola di Perugia nell’aprile scorso. Servizio Pubblico di Michele Santoro chiude. Ballarò di Massimo Giannini e Di Martedì di Giovanni Floris non sono mai decollati. Nell’ultima tornata elettorale, sicuramente una fetta di elettorato che prima seguiva la campagna elettorale alla tv o partecipava unicamente alla politica mediatica è andata a sentire il candidato dal vivo. E questo è avvenuto non solo per Matteo Salvini della Lega o per Luigi Di Maio di 5 Stelle, ma anche per Matteo Renzi e pure per Silvio Berlusconi, in recupero di feeling.
Molto probabilmente la videocrazia non è più convincente come un tempo; i numerosi programmi televisivi che trattano di politica stanno determinando assuefazione; le percentuali d’ascolto non sono quelle di una volta. Secondo alcuni studiosi (Pasquino, Sartori) la spettacolarizzazione della politica e la parolaccia in tv risultano meno efficaci rispetto al passato. Inoltre il cittadino-telespettatore comincia a rendersi conto che non è attratto da quel tipo di programma che non fa seguito ad atti politici concreti. In ogni modo resta il fatto che i passaggi televisivi di alcuni politici appartengono alla quotidianità e numerose sono le trasmissioni che si occupano di politica. Ciò nonostante altissima è la percentuale dell’astensionismo. Politica televisiva parlata e urlata con scarsa partecipazione alle urne. Allo stesso modo i video delle edizioni online dei giornali o le piazze virtuali di internet talvolta danno informazioni incomplete o sono rivolte esclusivamente ai nativi digitali. Eppure con la rete si è diffuso “5 Stelle”. Esiste il protagonismo delle reti civiche. E ancora, tanti movimenti del Terzo Millennio, nazionali ed internazionali, si mobilitano attraverso il “passa parola” elettronico. “Con i potenti mezzi della tv” e di internet la partecipazione si dovrebbe moltiplicare e invece agli appuntamenti elettorali ci ritroviamo con gran parte dell’elettorato che non vota. Non si sente coinvolto.
Dobbiamo cominciare a fare emergere le ragioni di tale stato di cose. Considerato il periodo che stiamo attraversando, crediamo di non sbagliare di molto nel dire che l’elettore assenteista vuole fatti, non chiacchiere; vuole risposte alla precarietà che sembra non finire mai. Non si fida più di progetti e programmi solo detti. E’ stato disilluso tante volte. Gli annunci lo catturano di meno. Questo vale per giovani e adulti, per genitori e figli. Per alcuni che si accostano alla politica ed entrano a farne parte come iscritti sono finiti i tempi dell’impegno disinteressato profuso con abnegazione. Succede sempre più spesso che certuni si avvicinano ai partiti con motivazioni che non hanno niente a che vedere con le idealità, ma hanno a che fare soltanto con possibili tornaconti personali: nomine nel sottobosco della politica, nei sub enti, un lancio nell’agone elettorale; speranza in un posto di lavoro o in una qualsiasi occupazione nell’ambito dello stesso partito. Niente di illecito, ma chi rimane fuori e osserva questo stato di cose, trova tante ragioni per allontanarsi dalla politica e prende la decisione di non andare a votare. E stiamo parlando di persone normali che con i loro comportamenti, comprensibilissimi, producono sfiducia. Niente di che, ma suscettibile di critiche per chi osserva dall’esterno. Se a questo si aggiungono, mafia-capitale, malaffare, burocrazia malata, zone grigie, partiti autoreferenziali e quant’altro, diventano chiari i motivi della decadenza, quasi irreversibile, di certa politica tradizionale. A questo punto le reazioni immediate dell’elettorato: voto di protesta, astensionismo o salire sul carro del vincitore. Quindi ci spieghiamo da una parte il successo elettorale di movimenti populisti, dall’altra le alte percentuali di astensionismo. Da qui la necessità di cambiare per formare un Paese serio. Ma si può credere nel cambiamento solo con la buona politica messa in atto ogni giorno da chi già la fa e ci crede. E non basta: sarà urgente e necessario l’impegno delle giovani generazioni per scoprire nuovi percorsi di rinnovamento culturale per partiti, movimenti, associazioni con la realizzazione di progetti e programmi da mettere in cantiere, non solo annunciare davanti alle telecamere.