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L'Italia non ha mai realizzato un'unità concreta. Ancora oggi il nord, il centro, il sud, non costituiscono un territorio omogeneo per cultura e condizioni di sviluppo. Lo Stato è una costruzione più formale che sostanziale. L'Italia, fondata nel 1861 da personaggi diversi per cultura e caratura umana (Mazzini, Garibaldi, Cavour) rappresenta tuttora un puzzle eterogeneo. Sicuramente è stata un'operazione della massima importanza per l'unità formale e politica di un territorio al centro del Mediterraneo, ma in totale assenza di unità dei sentimenti, del lavoro, delle risorse, dei costumi, in altre parole di una comune cultura. L'unità d'Italia è stata una rottura dell'equilibrio politico precedente ma solo sul piano istituzionale, tanto che ancora oggi i tragediatori dell'antimafia che sono un tutt'uno con i meridionalisti da cattedra, ripropongono la “questione meridionale” solo in chiave economica e non anche come effetto del grave ritardo culturale da noi stessi determinato.
Esiste una singolare analogia tra unità d'Italia e unità “istituzionale” dei tre comuni di Sant'Eufemia, Sambiase e Nicastro, realizzata senza un accordo sostanziale tra i tre sindaci dell'epoca che, fondamentalmente diversi l'uno dall'altro, esprimevano le diversità territoriali e costitutive delle tre comunità amministrate (l'una eterogenea e senza radici, ma con grandi prospettive, e le altre legate rispettivamente all'agricoltura e ai servizi). L'unità di Lamezia, dunque, è stata inventata, non per motivazioni di affinità di sentimenti, ma per legge.
Sul piano urbanistico è peraltro paradossale che questa unità, solo istituzionale, venga celebrata con un ennesimo simbolo “formale” e, quindi, con un vuoto, quale può essere una piazza anonima e non storicizzata (nel corso di questi primi cinquanta anni). Per una città senza anima, va certamente bene uno spazio neutro, indifferente, quanto la chiesa “inter-parrocchiale” o “con-cattedrale”: un ibrido semantico che rappresenta al meglio l'invenzione dell'unità (fittizia) tra i tre ex comuni e contenuta tutta nei due trattini più che dai due sostantivi urbanistici (piazza e cattedrale). L'unica cosa vera, con singolare continuità nel tempo, sono gli scioglimenti della città che contraddicono qualsiasi ipotesi di celebrazione di unità formale rafforzando, invece, l'idea di una Lamezia frantumata e ferita.
Un'unità formale che si colloca lungo la scia delle ormai tradizionali falsità che caratterizzano questa città. Due bugie di una lunga serie. In tutti i “manuali” di lettura toponomastica della città si legge di una via Salvatore Miceli, su cui si insiste imperterriti, trattandosi di fantomatico personaggio frutto della fantasia. In realtà via “S. Miceli” fa riferimento ad un'antica chiesa rurale intitolata a San Michele la cui denominazione negli atti settecenteschi viene riportata come San Micaeli, il cui dittongo “ae” è stato negli atti successivi trascritto erroneamente così come si legge, ovvero soltanto con la lettera “e”: da qui, quindi, “S. Miceli” e, poi, volgarmente spogliato della santità con un mai esistito Salvatore Miceli.
La stessa cosa è accaduta per il cosiddetto Palazzo Blasco. Si tratta in realtà del palazzo costruito alla fine dell'ottocento, sulle tracce di un precedente fabbricato dell'antica famiglia Mazza, da Davide Mauro e Alessandro Cimino e poi trasferito al demanio pubblico per essere destinato a Reale Ginnasio, in seguito ad autorizzazione del prefetto con decreto del 10 ottobre 1916. Per interrompere l'incredibile serie di bugie, sarebbe il caso di intitolare, a futura memoria, il più importante spazio urbano “Piazza Scioglimento”, da ridenominare poi “Piazza Risorgimento”, quando cambieranno sostanzialmente le condizioni socioculturali della città.