Per un reddito di “paesanza”

Scritto da  Pubblicato in Giovanni Iuffrida

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Iuffrida_matita-OK_0e788_db425_50701_ad838_a3ec4_50f5e_39a7a_13eda_4fdc6_624ba_cd20f_d090e_68191_ef208_86daa_446de_c41db.jpgIl dibattito è aperto da tempo: chiamiamoli come vogliamo, anche se una differenza sostanziale esiste, perché i borghi del nord resistono abbastanza bene, attraverso la vitalità dell’antico retaggio agricolo e artigianale, mentre i paesi del sud sono in rovina, in povertà e, da sempre, rappresentano «l’osso» osteoporotico d’Italia.

Profonde ragioni storiche, sociali, culturali ne caratterizzano la differenza. Come sottolineavano i maestri Manlio Rossi Doria, Emilio Sereni, Lucio Gambi e oggi Vito Teti, anche se la miseria è uguale a qualsiasi latitudine, si possono individuare sostanziali disuguaglianze anche nell’emarginazione sociale. Un dato tra tutti: nei primi anni Cinquanta, secondo i risultati relativi a un’indagine nazionale, l’indice di povertà era pari all’1,8% per la Toscana e del 37,7% per la Calabria, con misure di assistenza inversamente distribuite rispetto alle necessità regionali. Una fotografia in bianco e nero, che non aggiungeva nulla di nuovo rispetto alle note «condizioni dei contadini» già descritte dalle precedenti inchieste, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento.

Affermare che i nostri centri abitati (?) delle aree interne devono essere chiamati paesi («luoghi spaziali-temporali-mentali») invece che borghi, può essere utile soltanto per mantenere distinte le diverse storie, a differenziarne i caratteri di povertà, ma non a risolvere il problema della loro conservazione. Il problema non risiede nei liberi sostantivi fuori terra ma nelle radici che, nel mondo vegetale, costituivano una resistente rete sotterranea di stabilizzazione dei versanti montani e, in quello umano, una fitta trama di relazioni che davano il senso a un’intera comunità in una simbiosi uomo-natura (quasi) perfetta e, nello stesso tempo, malinconica per la netta percezione delle stagioni che finivano. Sono queste due reti che continuano a mancare e a rendere difficile ogni possibilità di recupero dei paesi dell’«osso» della Calabria. In realtà – com’è a tutti noto – i piccoli centri del sud, nati come luoghi di produzione agraria per poi perdere dal secondo dopoguerra la funzione originaria, si sono svuotati di ogni forma di vita associata, antico presidio della stabilità idrogeologica del territorio nel suo complesso e della conservazione dei suoi valori identitari.

Queste brevi considerazioni per affermare che la precondizione per il mantenimento in vita dei paesi delle aree interne è il recupero della vita associata. Il restauro di quelle case fatte di muri di pietre incollate dal sole non può essere sufficiente, né può essere sufficiente stimolare economie che non durano lo spazio di una stagione. Non basta catturare con la trappola delle case a un euro anziani turisti fai da te (o nella migliore ipotesi «di ritorno», nelle “case americane” dei primi anni del secolo scorso) che vivono quei grumi edilizi come un «paese presepe», il territorio come paesaggio da guardare solo dal punto di vista estetico o artistico, romantico o per la nostalgia suscitata da rovine ruskiniane, con il risultato di imprimere un’ulteriore accelerazione al progressivo invecchiamento sociale e territoriale della Calabria. Sono strategie, quelle finora praticate, che possono durare quanto la vita di una persona avanti con gli anni. Fuochi fatui di una vitalità breve, di paese, sempre più «osso» d’Italia.

Per conservare, restaurare, rivitalizzare i paesi bisognerebbe iniziare a riempire le aree interne di persone che siano animate dalla passione giusta per quelle attività utili a ricostruire l’economia e la comunità, base della salvaguardia del territorio. Per andare in controtendenza rispetto alla concentrazione della popolazione mondiale nelle città (le proiezioni parlano del 70% della popolazione che sarà concentrata nelle città tra trenta anni), alcune regioni stanno tentando di stimolare il trasferimento di nuovi abitanti nei piccoli centri garantendo un «reddito di residenza attiva». Appare, questa, una delle tante misure assistenziali non calate in un quadro di politiche attive di sviluppo, che invece dovrebbero essere promosse e realizzate direttamente dalla parte pubblica.

La spirale dell’abbandono, che genera degrado che a sua volta genera ulteriore abbandono che svilisce il senso di una nuova presenza umana o di una permanenza, può essere interrotta soprattutto con un’offerta qualitativa dei servizi essenziali (istruzione, salute e mobilità). Appare quanto mai necessaria una “riforma” agraria, non per creare nuovi villaggi, ma per rigenerare i nuclei abitati esistenti, garantendo la presenza dei servizi intercomunali essenziali e di figure professionali, più che dedicate, dedite, per profonda scelta personale, ai lavori di campagna – come scrivevano i giornali dei primi anni Venti – quali l’“agronomo condotto”, il “veterinario condotto”, il “geologo condotto”, l’”infermiere condotto”; figure a garanzia dell’assistenza per tutte le attività e per rendere più facile la vita quotidiana di chi decide di “fondersi” con la natura e “piantarsi” o “trapiantarsi”, dedicando la propria vita alla terra, che è di per sé un alto valore sociale. Sarebbe auspicabile, per esempio, che la Regione Calabria – tra le altre azioni possibili – bandisse un concorso per l’assunzione di queste figure, selezionandole, più che sulla base del numero dei master, soprattutto sulla base dell’attitudine, la passione, il profondo radicamento a “quella” terra. Questo non è utopistico, se si pensa ai «dottorati comunali», in attuazione del dm 725 del 22 giugno 2021, che hanno tutta la potenzialità di costituire, in particolare per le aree (Reventino-Savuto, Sila e Presila, Ionico-Serre, Grecanica) individuate dall’Agenzia per la coesione territoriale, una ulteriore utile premessa nella direzione del rafforzamento delle attività economiche in questi ambiti di svantaggio abitativo.

Se la Regione può aumentare i dipendenti dell’ente strumentale “Calabria lavoro”, dai 25 del 2017 ai 305 del 2020, perché non può farlo per queste figure professionali indispensabili per una reale rigenerazione delle aree interne? Perché non si può erogare per i primi anni un “reddito di paesanza” per i giovani imprenditori agricoli fortemente radicati, non solo per ragioni di economia, allo spirito dei luoghi di appartenenza e che esprimono un alto valore sociale di resistenza?

Buoni esempi di affermati giovani custodi del territorio e contaminatori sociali di sviluppo non mancano. Tra gli ultimi, in ordine di tempo: Stefano Caccavari, fondatore dell’azienda agricola Mulinum di San Floro e “seminatore” delle sue idee (in Toscana e in Puglia); Giovanni Celeste Benvenuto, che ha fatto rivivere, in area collinare di Francavilla Angitola, l’azienda agricola del nonno.

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