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Ho letto decine e decine di libri sull’antimafia, di magistrati, docenti, giornalisti e scrittori; mi mancava quello di un militare; l’ho trovato in libreria; per il sottoscritto una novità. Ho “divorato” le 343 pagine di Sapevamo Già Tutto. Perché la MAFIA resiste e dovevamo combatterla prima, di Giuseppe Governale, generale di divisione della Benemerita, dal 2015 comandante del Ros, Raggruppamento Operativo Speciale per la lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo; dal 2017 al 2020 direttore della Dia, Direzione Investigativa Antimafia. Un servitore dello Stato; l’ho visto qualche volta alla tv accanto al procuratore Nicola Gratteri, ultimamente invitato in alcune trasmissioni televisive di un certo livello a presentare il suo prezioso lavoro. Il corposo volume è stato pubblicato da Solferino nella collana Melampo diretta da Nando Dalla Chiesa (figlio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa), scrittore, professore ordinario di Sociologia all’Università degli Studi di Milano, già Sottosegretario di Stato. Il titolo della pubblicazione è inquietante, il sottotitolo ancora di più; allusivo il disegno sulla copertina: un camaleonte sulla nostra Penisola. Significativi alcuni passaggi dei diversi capitoli che trattano i delitti della criminalità organizzata dall’Ottocento al Terzo Millennio. Ti aspetteresti una narrazione di stampo militare, di carattere investigativo, repressivo. Ci sono anche questi aspetti; il tutto, però, con chiavi interpretative, storiche, antropologiche, letterarie, istituzionali, politiche che mettono a fuoco l’organizzazione delinquenziale siciliana e, in parte, quella delle altre mafie. Citazioni di autori importanti della letteratura italiana: Tomasi di Lampedusa, Elio Vittorini, Leonardo Sciascia, Camilleri. L’uso qua e là di parole e frasi siciliane fa ricordare il Montalbano di Camilleri. Ne elenco alcune: càlati juncu ca passa la china <piegati giunco perché passa la piena>, oggigiorno si potrebbe tradurre in andare sotto, nascondersi; bummolo <contenitore di creta per mantenere l’acqua fresca>; vastidduni <pane di farina integrale>; tanticchia <un po’>; Schiticchiare <fare uno spuntino>; mascariare <schizzare fango>; bunaca <giacca di fustagno>; un viddanu riccu e arrinisciutu <un contadino ricco e salito di livello sociale>; trasi munnizza e n’esci oro <entrano rifiuti ed esce ricchezza>. Questo dialetto permette di entrare facilmente nel contesto storico analizzato. Quasi una chiave antropologica.
L’autore, in realtà, dimostra onestà intellettuale, affermando di non essere un accademico, un intellettuale o studioso di professione: “Non sono in possesso delle competenze per valutare in maniera corretta e scientifica un fenomeno molto complesso. (…) Sono solo delle fotografie. (…) Delle istantanee, spero sufficientemente nitide, rivolte a costruire un album capace di raccontare un percorso”. E c’è riuscito con vari riferimenti bibliografici riguardanti la storia, la letteratura, la sociologia politica, il teatro e il cinema. Nella prima pagina cita Giuseppe Pitrè, letterato ed etnologo “ispiratore dell’interpretazione della mafia come sentimento di bellezza e non di organizzazione [criminale]”. In Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, edito nel 1889 da Carlo Clausen a Palermo, descrive in maniera articolata il mafioso come esempio di bellezza fisica e spirituale: “La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti. Il mafioso non è un ladro, non è un malandrino; […] è soltanto un uomo coraggioso e valente, che non porta mosca sul naso. […] Il mafioso vuole essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, alla giustizia, ma sa farsi personalmente ragione da sé” (p. 75). Intervistato da Enzo Biagi, Luciano Liggio, mafioso sanguinario, così rispose alla domanda sul termine mafia: “Leggendo vari autori che hanno parlato su ‘sta parola e rifacendomi al Pitré. (…) mafia doveva essere una parola di bellezza, una bellezza non solamente fisica, ma anche bellezza come spiritualità, nel senso che se incontriamo una bella donna diciamo che è mafiusa ‘sta fimmina”. In Parlamento 40 anni prima Mario Scelba, allora ministro dell’Interno aveva espresso la stessa sottolineatura filologica: “Se passa una ragazza formosa un siciliano vi dirà che è una ragazza mafiosa”. Il mafioso Calogero Vizzini ai giornalisti: “Quando vediamo un cavallo bizzoso noi diciamo che è mafioso”. Sembra un modo di pensare tutto all’opposto di quello inteso come criminalità organizzata.
Fino a quando non è arrivato Giovanni Falcone che è riuscito a coinvolgere Tommaso Buscetta, testimone di giustizia decisivo del fenomeno mafioso perché ha rivelato la struttura piramidale di Cosa Nostra. Così venne smentita dal testimone di giustizia l’idea di Pitré. Ma non era un fatto nuovo; esistevano prima dell’Unità forme organizzative anticipatrici di quella che sarà in seguito la mafia. In proposito qualche brano della relazione riservatissima, risalente al 1838, di Pietro Calà Ulloa, procuratore di Francesco II di Borbone, re delle Due Sicilie, sulla situazione sociale nell’Isola: “Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette”. Quasi 40 anni dopo, Leopoldo Franchetti, politico, economista post-unitario e studioso meridionalista scriverà di questione meridionale e mafiosa in Condizioni politiche e amministrative della Sicilia. Insieme a Sidney Sonnino aveva denunciato i delitti delineando “i tratti salienti dell’organizzazione”. Prevalse, però, e fu votata dal Parlamento la relazione di Romualdo Bonfadini secondo cui la mafia “non è un’associazione che abbia forme stabilite e organismi speciali”. Cento anni dopo identica sorte a quella di Franchetti ebbe la relazione di minoranza della Commissione antimafia del 1976 firmata da otto parlamentari.
Ciò nonostante aveva intuito già quasi tutto qualche investigatore; per esempio Ermanno Sangiorgi, questore di Palermo. Il suo lavoro investigativo si era concretizzato in 31 rapporti giudiziari inviati al procuratore del re dall’8 novembre del 1898 al 19 febbraio del 1900: relazioni investigative in cui si evidenziavano “le dinamiche criminali della mafia palermitana. In particolare, i rapporti di forza tra gli otto gruppi (lo stesso numero degli attuali mandamenti) e le numerose sezioni (le famiglie) dell’area territoriale della città” (p. 9). Il generale non sarà uno studioso di professione, però usa il metodo dei ricercatori citando le fonti, appunto Il tenebroso sodalizio di Salvatore Lupo, professore ordinario di Storia contemporanea presso l‘Università di Palermo (XL Edizioni, 2011). Non solo storici e politici meridionalisti. Nell’introduzione un brano tratto dal dramma teatrale "La mafia" rappresentato per la prima volta nel 1900 al Teatro Silvio Pellico di Caltagirone; il drammaturgo è “ un certo” don Luigi Sturzo, prete e politico antifascista considerato ancora oggi punto di riferimento da una parte del mondo cattolico: “[Una mafia che] serve per domani essere servita, protegge per essere protetta, ha i piedi in Sicilia ma afferra anche Roma, penetra nei gabinetti ministeriali, nei corridoi di Montecitorio, viola segreti, sottrae documenti, costringe uomini creduti fior di onestà, ad atti disonorati e violenti. (…) Finché vi era una magistratura da potersi fidare, incorrotta, cosciente dei propri doveri, superiore ad ogni influenza politica, potevasi sperare, poco, sì, ma qualcosa di buono; ormai nessuna speranza brilla nel cuore degli Italiani” (pp. 10-11). E il prefetto Cesare Mori, da vicequestore nel 1916: “Il vero colpo alla mafia lo daremo quando ci sarà consentito di rastrellare non soltanto tra i fichi d’india, ma negli ambulacri delle prefetture, delle questure, dei grandi palazzi padronali e, perché no, di qualche ministero” (Arrigo Petacco, Il prefetto di ferro, Arnoldo Mondadori, 1975, p. 66). Nell’immediato II dopoguerra il generale di brigata Amedeo Branca così ha scritto: “E’ noto che il movimento separatista e la mafia hanno fatto causa comune. (…) La mafia organizzazione interprovinciale occulta con tentacoli segreti che affiorano in tutti gli strati sociali con l’obiettivo esclusivo di indebito arricchimento a danno degli onesti e degli indifesi” (p. 83). Nel 1973 l’allora colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa “suggerì” alla Commissione parlamentare antimafia di confiscare i beni e i capitali dei mafiosi. Quello che avviene oggi quotidianamente, quasi 50 anni dopo.
E in questo mezzo secolo notevoli le trasformazioni dei mafiosi: non più quelli con la coppola e la lupara i cui rampolli “si laureano in prestigiose università” e sono esperti nell’uso del computer. E’ la mafia del Terzo Millennio, la mafia del presente. Non a caso Governale titola il sesto capitolo La mafia del mouse al tempo del Covid. Una conversazione telefonica tra due mafiosi baresi: “Io cerco nuovi adepti nelle migliori università mondiali. (…) Io cerco quelli che cliccano e movimentano [denaro]” (p. 265). Gli intercettati controllavano il mercato delle scommesse clandestine “attraverso piattaforme gestite dalle stesse organizzazioni criminali”. Ma sapevano già tutto gli investigatori di una volta. Non c’erano i giochi online; eppure erano diffuse le scommesse illegali da cui la camorra ricavava cospicui guadagni nell’Ottocento. Lo racconta Marc Monnier in La camorra (Editore Barbera, 1863): “La camorra (…) si insinuava nelle amministrazioni, alla Borsa, alla Banca, nei Ministeri e perfino in Corte, cenando co’ principi e barando alle loro tavole da gioco “. La differenza con l’oggi sta nel mouse, nelle nuove figure: “mafiosi tecnicizzati” insieme a “tecnici mafiosizzati”. Occupano vertici imprenditoriali o zone grigie; fanno da raccordo tra la mafia di tradizione e la mafia imprenditrice. Il gioco è l’espressione più evidente e si serve anche della nuova moneta: i bitcoin. In questo business si è inserita la ‘ndrangheta che nell’ambiente delinquenziale organizzato gode di prestigio e affidabilità essendo diventata holding internazionale per lo smercio di “tonnellate” di cocaina dal Sudamerica. Il gioco illegale è più conveniente e non provoca allarme sociale. E’ sufficiente un click e il denaro viene trasferito all’estero dove si può riciclare facilmente perché “vi è ancora una ridotta percezione del problema mafia in quanto associazione per delinquere.
Finalmente nel marzo del 2019 un giudice canadese ha condannato a 11 anni un calabrese per traffico di stupefacenti riconoscendo in quel Paese l’esistenza della ‘ndrangheta come “organizzazione criminale altamente strutturata”. In Europa è stato fatto qualche passo in avanti nell’opera di sensibilizzazione del grave fenomeno che ha assunto livelli globali: due conferenze operative sulle strategie di contrasto alle organizzazioni criminali di tipo mafioso; la prima, ad aprile del 2019 a L’Aja, in Olanda; la seconda a Palermo nel settembre scorso. Altra iniziativa, quella della Criminalpol italiana: una rete mondiale di “partenariati multilaterali contro le organizzazioni mafiosi”. Ancora: una Procura europea con sede a Lussemburgo avrà il compito di vigilare sui fondi europei con pubblici ministeri delegati.
Altro business raccontato dal generale: La mafia dei rifiuti. Si sapeva già negli anni Ottanta; il termine ecomafia significava fenomeno delinquenziale preoccupante: “Rifiuti speciali pericolosi trasferiti dal Nord e quasi costantemente smaltiti nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa, dove è maggiore il controllo delle organizzazioni criminali” (p. 279). Credo sia sufficiente ricordare “i veleni” sotterrati nella Terra dei fuochi, in Campania. Nello stesso capitolo, il penultimo, Giuseppe Governale mette in guardia le istituzioni dal “protagonismo” delle organizzazioni delinquenziali in questi ultimi anni pandemici. Le mafie disponibili a prestar denaro ad attività commerciali e ad aziende in difficoltà per poi appropriarsene. Si raccomanda, quindi, di velocizzare gli aiuti del Governo e di salvaguardare le risorse del Pnrr, Piano nazionale di ripresa e resilienza, che si sta attuando con i prestiti dell’Unione Europea, tanti miliardi, una parte a fondo perduto. Lo sanno già le Forze dell’Ordine. Il rischio di infiltrazione della criminalità è alto. Attivata la prevenzione. E’ stato istituito “l’Organismo permanente di monitoraggio ed analisi sul rischio di infiltrazione nell’economia da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso”. Esperienze operative simili nel recente passato, Expo Milano 2015 e Ponte Morandi si sono rivelate concretamente efficaci. Visti i risultati conseguiti, il secondo è stato preso in considerazione come <modello Genova> in quanto è riuscito a coniugare due esigenze fondamentali: “Celerità dei lavori [bloccando] l’infiltrazione della criminalità organizzata”. Estromessa un’azienda della camorra con condanne dei titolari: “E’ stato stipulato un innovativo protocollo d’intesa tra la Prefettura di Genova e la struttura commissariale, che ha individuato nella Dia il punto di snodo di tutti gli accertamenti. (…) Sono stati azzerati i tempi morti. (…) Procedure attente e semplificate. (…) Completa digitalizzazione delle gare” (p. 297- 298). Attenzione dovrà esserci in futuro nelle operazioni sospette. Le analisi dell’Uif, Unità di intelligence finanziaria della Banca d’Italia, rivelano che le segnalazioni provengono soprattutto dalle banche (il 70%), molto di meno da notai, commercialisti, avvocati, intermediari finanziari.
L’organizzazione delinquenziale è come un <camaleonte>: si adegua nelle diverse situazioni. Atteggiamento assunto dopo il periodo delle stragi. Secondo Governale, la risposta dello Stato ha ridimensionato soprattutto l’ala militare di Cosa Nostra; ma si è riciclata con modelli imprenditoriali ed è diventata meno appariscente e con maggiore capacità di infiltrarsi nelle amministrazioni. Gli accertamenti delle Forze dell’Ordine con i nuovi strumenti, specialmente quelli tecnologici hanno evidenziato il coinvolgimento non solo di politici ma anche di funzionari (p. 301). Nell’area grigia ci sono professionisti molto preparati, prossimi ai diversi settori dell’economia nazionale. Lo Stato si dovrà attrezzare con una legislazione adeguata onde evitare che la mafia si insinui in settori delicati delle Istituzioni. Nell’ultimo capitolo cosa vuol dire La vulnerabilità della mentalità dello <zero a zero>? Cosa significa il titolo che compendia le ultime pagine del libro? Presto detto con le parole di Governale: “Le organizzazioni criminali da sempre si sono insinuate nelle pieghe dell’inerzia, nei vuoti del lassismo, sfruttando la mentalità dello <zero a zero>, di chi rifugge l’etica della responsabilità (…) pensa che le pratiche possano risolversi da sole, (…) determinati <bubboni> nei reparti, negli uffici (…) non di rado si trasformano in metastasi” (pp. 307-308). Sono necessari impegno e responsabilità nelle diverse strutture della società italiana: “Una lotta alla mafia che sia seria non può essere delegata solamente alla magistratura e alle forze di polizia. (…) Le altre istituzioni dello Stato (…) non possono sostanzialmente disinteressarsene “. Il fatto che le mafie non fanno più rumore (scruscio) non significa che siano state debellate e scomparse. Lavorano illegalmente sotto traccia facendo affari nei mercati economico-finanziari anche con le nuove tecnologie. Sono necessari impegno e responsabilità. Per gli enti pubblici non basta la professionalità ci vuole pure motivazione. Due qualità imprescindibili per la classe dirigente, per funzionari e semplici addetti. Una società motivata, impegnata, performante. La scuola in questo giocherà un ruolo fondamentale per le nuove generazioni. La chiusa del libro è sulla scuola e la cultura: “Forse, in definitiva, l’unico rimedio sarà quello di rilanciare il ruolo della cultura e della scuola in ogni ambito, curando innanzi tutto la formazione di base, seguendo i veri valori etici senza tempo, gli unici a farci crescere singolarmente e come società civile, secondo quella matrice ideale così cara (…) a Gesualdo Bufalino [insegnante e scrittore]: la mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari”.