L'antica tradizione della “Farsa di Carnevale” a Sambiase ai tempi del cantastorie Borelli: "La festa più attesa dell'anno"

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Lamezia Terme - “Vi prìagu bòna gènti d’ascurtàri,/sintìti chìni fhù Carnalivàri./Arrìatu cèrti tròppi lu vidìti/cha stà ccùmu lu lùpu a lli gridàti./S’è cannarùtu bèni ‘u canuscìti/cha màncu di canìglia lu vurdàti”. Iniziava così l’antica “fhàrzza di Carnalivàri”, commedia popolare in dialetto sambiasino che Giovannino Borelli (1904-1958) quale allegro e ultimo cantastorie, inscenava, assieme ad altri amici, per le vie del centro storico di Sambiase, nei tre giorni che precedevano ‘azàta, cioè il Martedì Grasso.

“Una tradizione - ricorda il nipote - intrisa di religiosità pagana che, al pari della questua, si è mantenuta viva fino a metà del secolo scorso. Essa era legata al mondo contadino e pastorale che affondava le radici nei popoli che in altre epoche hanno popolato la nostra Calabria. Oggi non si tiene più a mente quale sia l’importanza della festa del Carnevale. Essa era forse la festa più attesa dell’anno, il momento di rivalsa e rivincita morale in cui, per alcuni giorni, il povero, il colono, il servo o il vassallo avrebbero preso il posto del ricco, del barone, del marchese, del conte. Il termine Carnevale deriverebbe da Carnalia delle feste dedicate a Saturno in età romana. Personaggi principali della farsa sambiasina, recuperata quasi interamente da mio padre, Salvatore Borelli (Dùci e amàru, 1986) erano: Carnalivàri, descritto come brutto, vagabondo, ubriacone e ladro; la sorella Faustina, una vecchia zitella che viveva con lui; il cugino napoletano Pulcinella e Corajìsima (Quaresima), sua nemica giurata. L’apice delle festività si raggiungeva la sera del martedì grasso con la celebrazione del funerale di Carnalivàri, morto a causa di una complicazione gastrica dovuta al troppo cibo ingerito. Il corteo si muoveva dal rione ‘Mped’alìvi, in cui abitavano i miei nonni, e attraversava tutto il centro storico: Sànta Nicola, Chjiàzza, Craparìzza, Miràglia, ‘Mpitràta e Cafhàrdu. Un rito gioioso e satirico in cui la protagonista assoluta era la salciccia che pendeva dalle tasche e dal collo del moribondo Carnalivàri. Il passo più atteso della farsa era l’arrivo del notaio, chiamato da Pulcinella nella speranza di ereditare qualcosa, visto che Carnalivàri era stato anche un abilissimo ladro. Sollecitato a sbrigarsi, il notaio leggeva le ultime volontà dell’estinto: «Lascio a mia sorella, Donna Faustina, quella proprietà non ancora comprata. Al caro cugino Pulcinella, per compensarlo del suo affetto, lascio due corna di bue e in più una cambiale da pagare». Deluso, Pulcinella si rivolgeva al cadavere di suo cugino: «I mìadichi e ‘u nutàru mò chi’ ppàga?/Cugì, si’ ‘nnu fitìanti!». In ultimo, Corajìsima, vestita a festa e felicissima, saliva su un’altura e annunciava la morte del suo odiato nemico, che portava via con sé tutte le negatività dell’anno. Così, dopo giorni di feste incontrollate ed eccessi, si passava al rigore del periodo di penitenza quaresimale”.

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