Da Gizzeria ai vertici dell’Università di Buenos Aires, la storia di Esteban De Gori: “Occorre connettere le comunità calabresi sparse per il mondo”

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Gizzeria - C’è un pezzo di Calabria al di là dell’Atlantico, magari anche un pezzo di comprensorio lametino, che si fa strada nel mondo accademico promuovendo la cultura delle radici: lo dimostra la storia di Esteban De Gori, direttore del Programma di Studi tra Italia e Argentina del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Buenos Aires. Nato in Argentina da padre originario di Gizzeria, è cofondatore della Rivista Culturale Be Cult, letta in diversi paesi del mondo, che ospita oggi fra le sue pagine collaborazioni e interviste con esponenti della letteratura, del giornalismo, della cultura calabrese. Il professor De Gori, legatissimo alla sua terra d’origine, racconta oggi la sua storia e il suo impegno nella costruzione di un ponte fra culture sorelle.

Qual è la storia familiare e personale che l’ha portata ad essere oggi una figura di spicco del mondo culturale e accademico del suo paese?

“La mia famiglia è arrivata in Argentina negli anni '50. Mio padre è nato a Gizzeria e mia madre a Francica. Io vengo da lì, faccio parte delle centinaia di migliaia di figli di calabresi che qui sono nati. Viviamo in un “ecosistema ibrido” tra la cultura argentina e quella calabrese. Anime divise. Lo sforzo dei migranti, lo sforzo dei miei genitori e dei miei nonni, ci ha permesso di conseguire una laurea. All'improvviso, da quel mondo calabrese che viveva nei quartieri periferici della provincia di Buenos Aires, siamo diventati studenti universitari. Sono stato il primo di tutta la mia famiglia a frequentare l’Università e a laurearsi. Essere figlio di migranti e di genitori non universitari è stata per noi un'esperienza vertiginosa. Poi ho fatto il dottorato, sono stato selezionato come ricercatore e ho ottenuto un posto di professore ordinario presso l'Università di Buenos Aires. Con una collega dirigiamo il Programma di Studi tra Italia e Argentina della Facoltà di Scienze Sociali dell’Università di Buenos Aires. I giovani con la mia storia facevano parte di quel “sogno” calabrese di progresso economico e di mobilità sociale che questo Paese ha permesso da alcuni decenni. Ho iniziato a scrivere su diverse riviste, ho compilato diversi libri e ne ho scritto uno. Con Claribel Terré Morel, grande scrittrice cubano-argentina, abbiamo fondato la Rivista BeCult di arte e cultura, letta in diversi paesi. Ho cercato di partecipare ai dibattiti intellettuali che sorgono in questo paese. Noi figli di Calabresi ci siamo fatti spazio in questo Paese. E abbiamo messo insieme anche un immaginario Comune calabrese dove torniamo sempre per scoprire chi siamo. Un Comune senza sindaco”.

Guardandola dall’altra parte dell’oceano, come vede la sua terra d’origine? E da cosa nasce la sua necessità di mantenere un legame costante con la Calabria e con le sue radici?

“Questa domanda è interessante. Come vediamo la Calabria? Un legame che ci attraversa, un territorio che ci ha permesso di raccontare noi stessi e una patria sfuggente. Cerchiamo e inseguiamo, narrativamente parlando, la Calabria, ma lei non “risponde al telefono”. Costruiamo un’idea di Calabria da lontano senza trovare il dialogo con le istituzioni calabresi. Come spesso accade in questi casi, abbiamo dovuto costruire reti, alberi genealogici, incrociare storie, immaginarle, raccontarle. Siamo diventati calabro-argentini. Costruiamo il nostro posto qui risignificando quell'origine indelebile che ci convoca continuamente. Non è un'idea romantica, ma in parte siamo ciò che l’eredità calabrese ha fatto di noi. Magari ci costruiamo un’idea della Calabria che nessuno conosce. Non siamo un’ambasciata calabrese all’estero ma un’idea di Calabria che arricchisce quelle che si costruiscono nel territorio della penisola. Lo abbiamo raccontato come meglio potevamo e continuiamo a farlo con quello che lì accade. Personalmente, fin da bambino, è nata l’idea di piazzarmi qua e là: vivere diviso per ricostruire una storia familiare e personale. La Calabria “si mette di mezzo” quando vogliamo scrivere la nostra biografia ed è da lì che nascono desiderio e curiosità. Può succedere che qualcuno abbia represso o messo tra parentesi quel desiderio, ma non è stato il mio caso”.

Cosa l’ha spinta a dedicarsi alla Sociologia? C’è una connessione fra questa scelta e la sua storia a cavallo fra due continenti?

“C’è una connessione tra la sociologia e la mia storia personale. Dopo tanti anni, ho capito che la sociologia “entrava” nella mia vita per cercare di rispondere a domande, mie e di altre persone a me vicine. La sociologia, tra l'altro, è un modo di guardare, di aggiustare lo sguardo e di narrare. E questo mi ha permesso di guardare alla mia biografia così come a quella degli altri intorno a me. Perché avevamo due inni, perché conoscevamo un dialetto calabrese, perché nel mondo della carne ci abbuffavamo di cibi italiani, perché avevamo gente dall'altra parte dell'Atlantico che chiedeva di noi? Questo è tutto. Qualcuno dall'altra parte dell'Atlantico chiedeva di me. È un’idea forte. Se esiste un diritto ad emigrare, oltre che a restare, come dice l'antropologo Vito Teti, esiste anche un diritto ad assumere in sé questi due movimenti. Siamo parte degli emigranti e di coloro che sono rimasti. La sociologia era un buon strumento per interpretarlo”.

Oltre a dedicarsi all’insegnamento e alla ricerca, lei è il fondatore della Rivista Culturale Be Cult, uno strumento importante di contatto fra contesti socioculturali diversi, che ha creato un ponte fra Italia e Argentina, invitando a collaborare diversi intellettuali calabresi. Quale pensa che sia ad oggi il risultato più importante di queste collaborazioni e dello scambio fra culture che ha avviato?

“È interessante e paradossale. In un Paese di grande emigrazione italiana, in maggioranza calabrese, il mondo culturale della Calabria circola in modo molto limitato. Pochissime mostre artistiche, quasi nessuna presentazione di musicisti e cantanti e tanto meno traduzioni di scrittori e intellettuali calabresi. Questo è molto strano. Tante persone di origine calabrese qui, e poco o niente dalla “madrepatria” culturale e artistica. La Calabria perde una grande occasione per connettere i mondi calabresi sparsi qua e là. Perché qui esiste un “mondo calabrese” che produce diverse forme d'arte che potrebbero incontrarsi e dialogare con quanto accade in Calabria. La Rivista Be Cult ha uno spazio per le “due Calabrie”, quella di là e quella di qua. Siamo interessati a sapere cosa succede dall’altra parte dell’Atlantico. Cosa viene pubblicato, chi scrive, quali sono le sue storie, come ci si sente o quale film o opera artistica viene esposta. La pubblicazione delle interviste a scrittori e specialisti calabresi ha suscitato grande interesse. Abbiamo cominciato ad avere lettori in Italia e soprattutto in Calabria. Succede anche qualcosa di importante: le persone di qua e di là si identificano con storie ed emozioni comuni. Cerchiamo di costruire in modo semplice un legame, uno spazio emotivo, un territorio di incontro”.

Giulia De Sensi

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