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Pare che alcuni Stati arabi moderati si stiano rendendo conto che il vero nemico sia il Califfato, altrimenti conosciuto come Isis nelle sue origini irachene e siriane. Sembra che tale consapevolezza si stia facendo strada fra ampie fasce della popolazione di quei Paesi. Secondo talune analisi di osservatori occidentali certa politica di appoggio alla cosiddetta “primavera araba” è stata un fallimento. A detta di questi politologi, non pensare al dopo Gheddafi è stato un errore madornale. Eppure c’erano state le politiche militari fallimentari in Afghanistan e in Iraq.
Oggi fare tesoro degli sbagli del passato è buona regola non solo per riparare al danno fatto, ma anche per porre attenzione diversa al mondo arabo e cercare di risolvere problemi che hanno avuto origine nell’Alto Medio Evo, si sono aggravati dopo la terza battaglia di Lepanto (Lega Santa contro Ottomani) e moltiplicati con l’avvento della decolonizzazione nel secondo dopoguerra. In un crescendo continuo diventano enormi quando il terrorismo internazionale assume sembianze pseudo religiose con gli attentati alle Torri Gemelle e ultimamente a Parigi. Riguardo agli ultimi avvenimenti libici, in un primo momento, le dichiarazioni di alcuni ministri italiani sembravano sottintendere intervento diretto dell’Onu a guida italiana, nei giorni in cui siamo stati additati e minacciati dall’Isis come “Crociati”. Per fortuna Renzi ha messo a tacere chi sostiene l’uso della forza considerando dialogo e/o negoziato prioritari, forse imprescindibili.
Quindi, il primo ministro italiano appoggia pienamente l’iniziativa portata avanti, tra tante difficoltà, dall’inviato speciale delle Nazioni Unite Bernardino Leon. Il quadro politico in Libia è a dir poco complicato, un puzzle che mette a dura prova la diplomazia internazionale. Ci sono due governi, quello di Abdullah al Thani, insediatosi a Beida, espressione del Parlamento di Tobruk, riconosciuto dalla comunità internazionale, che pare non sia d’accordo per l’unità nazionale contro l’Isis; lo stesso vale per il governo ombra di Omar al Hasi a Tripoli, non riconosciuto dalla comunità internazionale. Alcuni Stati arabi sono diversamente schierati, o con il primo (Egitto ed Emirati Arabi Uniti) o con il secondo (Qatar e Turchia). A Sirte, la città del defunto rais Gheddafi, sono presenti gli ex gheddafiani i quali appoggerebbero il califfato. Altre zone risulterebbero fuori controllo. La situazione descritta è senz’altro incompleta e potrebbe pure cambiare, speriamo in meglio. Tuttavia è sufficiente per far dire agli esperti che un intervento militare rischierebbe di impantanarsi nelle varie e contrapposte fazioni etnico-religiose, per non parlare del costo in vite umane.
A noi interessa, in questa fase, non creare allarmismi mal riposti o, peggio, paure incontrollate nel nostro Paese e in Europa. A volte qualche articolo di giornalisti la cui bravura è fuori discussione fa immaginare situazioni e previsioni di battaglie in mare che potrebbero diventare vademecum per eventuali forme di pirateria da parte di Jihadisti. Altri hanno scritto di numerosi terroristi nei barconi fra gli immigrati, pronti a far saltare in aria l’Italia e L’Europa. Sull’argomento D’Alema, ex capo del governo e già ministro degli esteri nei tempi andati, intervistato nel merito dalla Gruber alla trasmissione televisiva “Otto e mezzo”, ha fatto una semplice constatazione: gli autori degli attentati di matrice islamica nel Vecchio continente sono cittadini europei e non provenienti dalle coste africane. Certi giornalisti dovrebbero essere maggiormente cauti e responsabili nel veicolare le notizie, sennò si potrebbe fare il gioco dei Jihadisti fomentando paure che sono frutto dell’immaginazione.
E quindi i media tradizionali non dovrebbero contribuire inconsapevolmente a diffondere panico. Quelli del califfato sono molto abili ad usare internet per propaganda digitale, manipolando giovani volontari; a ciò si aggiunge la tragica messa in scena alla tv delle decapitazioni o degli sgozzamenti che terrorizzano l’Occidente. Ulrich BecK, sociologo tedesco scomparso di recente, tra i grandi del pensiero contemporaneo, così rispondeva sui media che creano pubblico per le azioni di al-Qaida: “… non è tanto l’atto terrorista quanto la sua messa in scena globale e le anticipazioni politiche che crea, con azioni e reazioni che stanno distruggendo le istituzioni occidentali di libertà e democrazia. Forse se il nuovo governo Usa, quelli europei e i giornalisti iniziassero a riflettere sull’importanza di questa messa in scena nel sostenere involontariamente il disegno dei criminali, si potrebbe inquadrare diversamente il terrorismo. Ad esempio, non come questione militare ma di intelligence e di politica, che necessita nuovi tipi di politica transnazionale”. Se guerra si vuol fare nel XXI secolo, questa, va condotta, per lo più, a livello informatico, online, di twitter, di face book, oscurando i siti dei sedicenti islamici.