Gabriele De Gotti di Altilia, da fondatore a traditore della Carboneria

Scritto da  Pubblicato in Luigi Michele Perri

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La prima carboneria, tra repressione e tradimenti. Sorprendente fu l’infame voltafaccia del suo fondatore. La storia è inedita. Riguarda Gabriele De Gotti (1786? – 14 gennaio 1829), medico di Altilia con laurea conseguita all’Università di Napoli. La sua permanenza di studio nella capitale, dove nel 1799 c’era stato il massacro che affogò nel sangue la breve fase repubblicana, si collocò tra la fuga di Ferdinando IV di Borbone a Palermo e l’insediamento della monarchia francese di Giuseppe Bonaparte (1806 – 1808) e di Gioacchino Murat (1808 – 1815). Una fase storica cruciale che, da una parte, metteva in crisi la dinastia borbonica e il suo assolutismo, e, dall’altra, ridava fiato alle istanze liberali. L’altiliese, come tanti altri giovani della buona società meridionale, assorbì a Napoli le nuove idee in fermento tra il credo repubblicano e quello monarchico-costituzionale. A Cosenza, conobbe l’intendente Briot, un giacobino, massone come lui, bon cousin della carboneria d’Oltralpe, già deputato, che, nonostante il suo antibonapartismo, era riuscito ad entrare nell’apparato imperiale, incline ad assorbire i rivoluzionaristi d’un tempo, a conferire loro incarichi burocratici e ad allontanarli dalla madrepatria.

La loro amicizia valse a costituire una prima “vendita” carbonara ad Altilia e a fondarne almeno altre due a Cosenza, sotto il paravento massonico. De Gotti guadagnò, così, la storia come promotore dei primi covi. Era il 1811, epoca in cui la carboneria non era ancora nata in Italia, se non nel Regno di Napoli. Ne mantennero la primogenitura Chieti e Cosenza, dove Briot aveva svolto le sue funzioni assimilabili a quelle prefettizie (I. Montanelli). Ben presto a prendere in mano le redini della cospirazione fu Vincenzo Federici, detto Capobianco, zio di De Gotti. L’eroico Capobianco sarà giustiziato nel ’13. Dopo la Restaurazione borbonica (1815), la carboneria puntò ad un’insurrezione mirata ad ottenere la costituzione. I moti del ‘20 fallirono. La reazione borbonica fu spietata. Furono anni di terrore. A Cosenza fu inviato il più torvo intendente di polizia dell’apparato, il teramano De Mattheis, torturatore implacabile. Egli si circondò di scherani locali (per lo più, di Rogliano e Marzi), noti come “i gialli” (fonte: Luigi Settembrini) per il prevalente colore del loro abbigliamento, e di una rete di spie e delatori, che facevano capo ad una ristretta cerchia di fiancheggiatori. Chi c’era tra i complici del feroce, zelante borbonista? Incredibile a dirsi, Gabriele De Gotti. Una vile (come tale riconosciuta) macchinazione dell’intendente colpì, in particolare, i covi di San Mango d’Aquino, di Tessano e di Catanzaro. Nella città capoluogo, il 24 marzo del 1823, a Catanzaro, l’ordito di De Mattheis e dei suoi “assistenti” e “falsi testimoni” finì per portare sulla forca Francesco Monaco, cosentino di Dipignano, Giacinto de Jesse e Luigi De Pascale, catanzaresi. La crudeltà dell’intendente angosciò persino il re Francesco I che si adoperò perché la magistratura lo ponesse sotto processo. Tra i coimputati c’era De Gotti che morì, in circostanze misteriose, poco dopo la scrupolosa indagine di giustizia e prima della celebrazione della causa. De Mattheis fu riconosciuto colpevole dei suoi crimini e condannato a morte. La pena gli fu commutata a dieci anni di carcere da Ferdinando II, subentrato sul trono, alla morte del padre. A De Gotti resterà la taccia del disonore.

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