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Venerdì pomeriggio. Percorro la 106 ionica in direzione nord. Verso Cariati, dove sono stato invitato a presentare “Il Parco Nazionale del Pollino” e “Lettere meridiane”. Distruzioni inenarrabili. Accozzaglie di cemento armato alla rinfusa. Pullulare di pale eoliche sulla sky-line delle colline: contro il cielo, al posto delle nubi. Avvisaglie del micidiale mini eolico (pale di trenta metri minimo), che per essere piazzate non hanno bisogno di autorizzazioni (per il nostro ineffabile legislatore sono strategiche). Alberghi a cinque stelle, costruiti con il nostro danaro, come improbabili templi neoclassici in mezzo allo sfacelo. Quali idioti andranno mai a spendere cifre assurde per qualche giorno di immersione nell’orrido calabro? Casermoni di cemento in stile bolscevico che ospitano immaginifiche mostre permanenti del mobile. Spazzatura, sporcizia, cumuli di rifiuti: non c’è un metro quadro pulito! Hanno appiccato il fuoco alle colline del Marchesato. Da cui si leva un fumo denso. Caldo afoso e fuoco furioso: così deve essere l’inferno. Gli abitati si susseguono senza un plausibile ordito urbanistico. Le macerie della Pertusola di Crotone. Meglio che non sia finita come a Taranto. Punta Alice. La spiaggia con le vacche e gli ombrelloni. Buste di plastica, bottiglie, lattine, assorbenti tra rovine di millenni. Copertoni d’auto tra gli ulivi contorti. Sul mare purpureo di Omero, l’archeo-condotta di un qualche impianto chimico fallito. A Cariati, sul mare è uno sfacelo. Ma il paese vecchio, accerchiato da mura, impenetrabile ai mezzi motorizzati, è un incanto.
Otto torrioni circolari. Le piccole case che s’affacciano sulla cinta muraria. Strette ed alte porte in cui si scontrano i venti del mare e della Sila. La gente è seduta nel piccoli bar. I vecchi s’accucciano nell’ombra dietro gli usci e le finestre. Un camera linda, arredata con gusto. Una piccola trattoria dove si mangia solo cibo locale. Musica etnica in sottofondo. Una piazza tra le vecchie case. Alla sera, tanta gente seduta ad ascoltare. Parlo di loro, di noi, delle nostre vite ignare, del nostro coma e dei nostri risvegli. Parlo di ombra e di luce. Parlo di omeopatia del brutto e di terapia della bellezza. Mi osservano incuriositi. Soprattutto tre anziane signore del luogo. Non so perché ma mi vengono in mente il pane appena sfornato, le olive schiacciate, i pomodorini sottolio. Sorridono: leggono nel mio pensiero. Sanno che le mie parole sono le loro. Comprendono che non è tutto perduto, che la loro solitudine, il loro nulla, la loro attesa non saranno eterni. In questa notte incantata, tra il cielo stellato e il mare scuro, tra rovine eloquenti e spiriti che aleggiano, la dea Mnemosine torna a narrare. Ecco come si usa la bellezza: serbandone memoria, abitandola.