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Conviene tornare, a distanza di un paio di settimane su quanto avvenuto il 21 giugno nella spianata di Sibari quando il Papa venuto dall’Argentina ha scomunicato in maniera formale e ufficiale la ‘ndrangheta. Giova tornarci perché le cose in Calabria – come e’ noto - si scordano in fretta e magari qualcuno farà finta che nulla sia successo e invece la scomunica in diritto ecclesiastico e’ la più grave delle censure, una pena letale, poiché comporta l’esclusione dalla comunione del battesimo (Vito Barresi).
E per quanto la si voglia soltanto guardare dal lato del crimine mondano, esterno alla gerarchia della Chiesa Romana, questa condanna – nota sempre argutamente il sociologo crotonese – "riguarda anzitutto ogni prete in odor di mafia, ogni parrino collegato con la ‘ndrangheta, poiché il condannato è soggetto al triplice divieto di prendere parte attiva come ministro alla celebrazione eucaristica e di qualsiasi altra cerimonia di culto pubblico o liturgico, di celebrare i sacramenti o i sacramentali e di ricevere i sacramenti, di esercitare qualsiasi ufficio, ministero o incarico ecclesiastico’’.
Francesco ha pronunciato senza esitazione la scomunica della ‘ndrangheta, appena pochi minuti dopo essersi fermato in preghiera sullo spiazzo della canonica dove è stato ucciso il parroco don Lazzaro. Quel nome, così denso e risonante di richiami, ha suscitato intensa commozione nel Pontefice, che salendo in macchina per raggiungere la spianata di Sibari è apparso assorto, contratto nel suo pensiero. Quasi fosse andato a quel sepolcro – conclude Barresi - nella luce del Mediterraneo, per togliere la pesante pietra sopra una tragica vicenda e liberare, non solo simbolicamente, la Calabria dal peggiore dei suoi nemici, il crudele e sprezzante demone della ‘ndrangheta che ha "falciato migliaia di vite umane, sfigurando il cuore e infangando l’onore del popolo buono che da millenni abita questa terra’’.