Calabria: il Brigantaggio prima dell'Unità

Scritto da  Pubblicato in Francesco Vescio

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Nel brano successivo sono delineati i tratti più caratterizzanti della società calabrese nel tempo in cui il banditismo era particolarmente diffuso: “In conclusione si può dire che la dominazione spagnola e asburgica peggiorò la già triste vita delle popolazioni del regno di Napoli e quindi della Calabria. La politica regia mirò principalmente alla rapina fiscale e si tradusse in un incontrollato esercizio del potere […] La nobiltà perdeva gli antichi connotati propriamente feudali nella misura in cui le relazioni sociali erano sempre più mediate dal denaro e l’acquisizione della stessa <<dignità>> nobiliare , passava per la via obbligata dell’accumulazione monetaria, che metteva in grado il borghese ( affittuario, mercante, usuraio, ecc. ) di comprare il titolo […] I contadini languivano per gli stenti e cercavano di salvarsi con la fuga ma non ebbero neppure questa possibilità. Lo spopolamento non poteva che segnare la fine o il rimpicciolimento della rendita fondiaria; e i feudatari, e più ancora i loro creditori, trasformatisi in affittuari – un ceto divenuto imponente- ne avrebbero sofferto. Niente città per la gente di campagna! La condizione, nei tre secoli studiati, toccò il   fondo della miseria [….] Nel buio delle coscienze, rotto appena dal lampeggiare breve della protesta misconosciuta di pensatori ed artisti, il bisogno, estremo, di fare e di lottare, si tradusse qui e là in un grido di rivolta popolare, in un massiccio e permanente banditismo e in un’ansiosa ricerca di un’altra patria, non importa quale, purché il tozzo di pane ci fosse” (Enzo Misefari, Storia Sociale della Calabria – Popolo, Classi Dominanti, Forma di Resistenza dagli Inizi dell’Era Moderna al XIX Secolo, Jaka Book, Milano, 1976, pp. 114-115).

Nel primo Ottocento i briganti sostennero la dinastia borbonica per come esplicitato nel passo successivo: “Il brigantaggio nelle province meridionali ebbe come costante carattere endemico, perché frutto di gravi carenze economico-culturali con pesante ricaduta nel tessuto sociale; carenze createsi non in periodi di punta, ma esistenti da lunghi tempi e causanti il persistere del ribellismo contadino. Solo in determinati periodi di crisi, come il Decennio francese e subito dopo l’Unificazione, esso assunse carattere prevalentemente epidemico, raggiungendo delle notevoli punte di recrudescenza […] Il brigantaggio fu dunque un fenomeno d’insorgenza contro una società e un modo di vivere improntato all’oppressione e all’ingiustizia, ma paradossalmente, in momenti cruciali, in contraddizione con le proprie aspirazioni. I Borboni fecero spesso un uso strumentale del brigantaggio col fine di restaurare il proprio potere o di tenere a freno i movimenti liberali, non a caso osservava il Nitti che la monarchia borbonica <<trovava la sua difesa nel divampare degli odi popolari>>. E così nella Repubblica Partenopea del 1799, nel decennio francese, nel periodo post-unitario: tutti movimenti ancorati al passato, tutti tendenti alla restaurazione borbonica, tutti fenomeni d’insorgenza contro il nuovo per restaurare, a torto o a ragione, il passato” (Rosella Folino Gallo,  La Reazione Filoborbonica nella Calabria Ulteriore II – 1860-1865-, Calabria Letteraria Editrice, Soveria Mannelli, 1997, pp. 11-12).

Il sostegno dato ai Borboni in Calabria da tante bande di briganti dette masse fu molto rilevante nel Decennio Francese e la repressione fu durissima per come esposto nel passo successivo:“Non poche molestie aveva arrecato il brigantaggio alle truppe francesi negli ottanta giorni di permanenza nella regione e Murat, abbandonandola, delegò quale suo alter ego il generale Antonio Manhès col preciso incarico di sradicarlo definitivamente da  quelle province […] Con un’ordinanza di polizia, egli ammonì i ricercati a deporre immediatamente le armi, promise impunità a chi avesse consegnato vivi o morti i propri compagni, pose cospicue taglie sulla testa dei più pericolosi, proibì i lavori in campagna, ordinò che il pascolo fosse effettuato esclusivamente in terre sorvegliate, vietò – pena l’arresto o la morte- ogni aiuto, volontario o meno, ai fuorgiudicati, impose alle civiche ed ai legionari di stare sempre in campagna. Al provvedimento fu data la massima pubblicità onde evitare ogni possibile equivoco e impedire qualsiasi scusante, furono arrestati tutti i parenti fino al quarto grado dei ricercati e si cercò di impedire loro ogni possibile fuga verso la Sicilia [La corte borbonica allora aveva sede a Palermo, N.d.R.]. Manhès non tollerò alcun cedimento, con insolita severità procedette contro comuni e civiche che non avevano compiuto quanto disposto. Nel volgere di tre mesi il brigantaggio fu estirpato; università [Tale termine allora designava gli attuali Comuni, N.d.R. ] e singoli cittadini, temendo la terribile collera del generale, si impegnarono a fondo; depurate dagli elementi peggiori, le civiche non concessero, né a sé, né ai briganti alcuna tregua. I briganti, ridotti allo stremo dal freddo e dagli stenti, senza più appoggi e coperture si arresero in molti, moltissimi caddero sul campo [...] Alla fine dell’inverno [del 1811, N.d.R.] il brigantaggio era ufficialmente distrutto. Il brigantaggio calabrese nel Decennio fu la risultante di un complesso di cause non sempre generalizzabili poiché molto incidevano nelle motivazioni le situazioni locali. Alla sua origine furono, fondamentalmente, le irrisolte questioni politiche, sociali ed economiche che agitavano il regno nella fase di transizione dall’ancien règime al nuovo sistema. La repressione murattiana riuscì a sopprimerlo fisicamente ma non poté sradicarlo definitivamente perché irrisolte rimasero le questioni che ne erano state all’origine” (Antonio Puca, La Calabria nel Decennio Francese, in ‘ Storia della Calabria Moderna e Contemporanea- Il Lungo Periodo’, a cura di Augusto Placanica, Gangemi Editore, Roma – Reggio Cal., 1992, pp.427-428).

I re borbonici del Regno delle Due Sicilie presero diverse decisioni contro il brigantaggio con esiti di particolare rilievo, ma per nulla risolutivi della questione per come esposto nelle note successive: “Nel 1816 Ferdinando I raccoglieva soprattutto in Calabria l’eredità di un brigantaggio che per opportunismo ed in buona fede aveva innalzato la bandiera del legittimismo e della Santa Sede. Col ritorno del re legittimo tale brigantaggio era del tutto restio a deporre le armi. Il governo affrontò la situazione affidando l’alter ego (pieni poteri) a Vito Nunziante nelle province di Cosenza e Catanzaro, ove il brigantaggio silano, endemico, era particolarmente pericoloso. Nella provincia di Reggio, invece, si lasciò mano libera all’intendente Nicola Santangelo, il quale, organizzando una squadriglia di fucilieri detti micheletti al comando del napoletano Antonio Amato e mettendo l’uno contro l’altro i briganti con la promessa di grazia e di denaro riuscì a ripulire la provincia dei banditi più pericolosi [...] Dopo un’altra fiammata di brigantaggio nel 1821-22 in conseguenza dei noti fatti politici […] il fenomeno si presentò con rinnovata virulenza nel 1847 nelle province di Cosenza e Catanzaro. Nel luglio 1847 327 erano i briganti schedati latitanti nella provincia di Cosenza e 150 in quella di Catanzaro [...] Con decreto del 22 luglio 1847 fu dato mandato con alter ego al generale Enrico Statella di combattere quel brigantaggio. Usando la forza ed ordinando ai proprietari di sorvegliare le loro masserie silane con guardiani armati, il generale s’illuse di aver risolto il problema. In effetti, anche a causa degli avvenimenti politici dell’estate del 1848 il brigantaggio ritornò ad imperversare più spavaldo di prima. Dopo una parentesi di poteri straordinari allo stesso Statella, l’alter ego con sovrano rescritto del 16 ottobre 1849 fu affidato a Ferdinando Nunziante, figlio di quel Vito che già si era distinto per la sua energia repressiva nel biennio 1816-17 […] Partendo dalla presa d’atto che senza la trama della solidarietà familiare e senza complicità di alcuni possidenti che sfruttavano il fenomeno per angariare e vessare i loro nemici (come potevano i briganti analfabeti scrivere i biglietti di ricatto ed estorsione?), il brigantaggio non avrebbe potuto prosperare, il Nunziante decise di trasferire lontano dalla Sila, in Monteleone [ L’attuale Vibo Valentia, N. d. R.] le famiglie dei briganti ed ottenere dal governo l’emanazione di disposizioni che prevedevano il sequestro e la vendita dei beni dei briganti e pene severe per i <<manutengoli>>  (maggio 1850). Qualche successo fu raggiunto: l’uccisione tra il 1851 e il 1852 di alcuni capi che incutevano maggiore terrore (Nicola Rende e Raffaele Arnone), la costituzione di un altro brigante: Pietro Branca; ma, anche se dal 1847 al 1852 furono uccisi ben 1.000 briganti, il fenomeno era tutt’altro che scomparso. Esso era radicato nel costume delle popolazioni soprattutto silane e tornò a turbare il sonno dei proprietari come quelli del governo borbonico alla vigilia dell’unificazione  italiana. Il 27 ottobre 1859 fu inviato in Calabria munito di pieni poteri il generale Emanuele Caracciolo, duca di S. Vito. Per le gazzette e le fonti ufficiali del tempo ogni preoccupazione veniva mascherata dietro la triste contabilità che parlava di 60 uccisi, 34 catturati e 41 costituiti dal 27 ottobre 1849 al 5 gennaio 1860. Come deterrente si citavano i briganti famosi che si erano consegnati alle autorità: Giuseppe Cava di Pedace e Francesco Marino di Longobucco; o gli irriducibili che erano stati presi e fucilati a Cosenza. Ma la situazione non era di molto cambiata, anzi peggiorava quando le autorità borboniche furono costrette nel maggio del ’60 a distrarre forze dalla lotta contro il brigantaggio per convogliarle contro Garibaldi” (Michele Fatica, La Calabria nell’Età del Risorgimento, in ‘Storia della Calabria Moderna e Contemporanea- Il Lungo Periodo’, a cura di Augusto Placanica, Gangemi Editore, Roma – Reggio Cal., 1992, pp.524-526). Da quanto sopra riportato si può inferire che la lotta al brigantaggio in Calabria costituì un pesante e impegnativo problema sia per i governanti francesi sia per quelli borbonici, i provvedimenti presi furono duri, ma raramente efficaci nel lungo periodo; gli interventi erano essenzialmente basati sulla repressione e non furono adottati provvedimenti che tendessero a migliorare la vita civile come l’istruzione, la viabilità o sociali come la riforma agraria.

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