Lamezia Terme - Passaggi obbligati facilmente controllabili, luoghi di dazio, stazioni e collegamenti fondamentali nella via fra i due mari, attraversati da personaggi illustri, briganti e viaggiatori stranieri in tour per l’Europa: gli accessi alla città di Nicastro non hanno una sola storia ma mille, tutte meritevoli di essere raccontate. Ma per capire bene di cosa esattamente si parla, occorre una precisazione fondamentale. Siamo da sempre abituati, dal vivo o per immagini, ad ammirare le magnifiche edificazioni antiche che delimitano l’ingresso dei borghi o degli insediamenti storici: sono le cosiddette “Porte della città”, presidio di sicurezza e allo stesso tempo luogo di passaggio, di apertura verso il territorio. Le ritroviamo spesso attorno ai luoghi fortificati, che sorgono arroccati sulle alture. Anche a Nicastro, storicamente città di pianura, esistevano dei luoghi precisi d’accesso? La risposta è sì. Anche se non nel senso consueto del termine, come spiega l’archeologo Antonio Vescio, direttore del Centro di Documentazione e Studi su Lamezia Terme e il comprensorio lametino.
“Le "porte" di Nicastro – spiega Vescio – non sono vere e proprie porte, letteralmente intese: l’Arco di Sant’Antonio, ad esempio, di cui rimane traccia tangibile, anche da integro non era chiuso da battenti. La funzione d’accesso – e anche di confine – era svolta invece dal ponte e dal fiume che l’arco simbolicamente incorniciava, uno dei tre punti di passaggio obbligati per chi entrava o usciva dalla città. Anche negli altri due casi, sono sempre i corsi d’acqua che delimitano l’abitato e i loro attraversamenti a svolgere storicamente questa funzione. Si potrebbe quindi dire che le nostre “porte d’accesso” siano stati i fiumi e i loro ponti, che nel corso dei secoli, con alterne vicende anche funeste, hanno caratterizzato la storia e l’urbanistica di Nicastro”. Partiamo proprio dal Ponte di S. Antonio sul torrente Canne, luogo che ha conservato nel tempo il suo valore simbolico. “In passato noto anche come ‘Ponte dei Cappuccini’, con il suo arco di cui oggi resta un’iconica coppia di pilastri, questo passaggio ha da sempre svolto il ruolo di “porta” est della città, funzione che in un certo senso svolge ancora oggi per quanto riguarda l’accesso al centro storico” – continua il direttore Vescio.
“Fu il cappuccino Padre Antonio da Olivadi, lo stesso che commissionò a Napoli l’attuale statua nicastrese del Santo protettore, a far costruire intorno al 1685 il ponte in muratura, in sostituzione di quello in legno, per facilitare l’accesso dei pellegrini al convento. Il ponte venne inoltre sormontato dal grande arco, sulla cui sua sommità fu posta una statua in pietra del Santo rivolta verso la città. L’arco crollò in seguito al terribile sisma del 1783, ma miracolosamente la statua venne recuperata intatta dalle macerie e ricollocata in una nicchia della facciata della chiesa dei Cappuccini, al di sopra dell’ingresso principale, dove si trova tuttora”. È possibile ancora oggi ammirare il ponte e l’arco nella loro forma originale in uno splendido disegno datato intono al 1760, conservato presso l’Archivio di Stato, che ritrae la veduta della “Piazza Grande di Nicastro”, all’incirca l’attuale Piazza Mercato Vecchio: tale sbocco, al quale si accedeva attraverso il ponte, era un punto di passaggio obbligato, e anche di commercio, lungo il percorso di collegamento tra i due mari, sul versante settentrionale della Piana di Sant’Eufemia.
“Spostandoci sul lato opposto del centro urbano, ovvero quello ovest delimitato dal fiume Piazza, le cui frequenti e disastrose alluvioni hanno nel tempo mutato fortemente l’aspetto stesso dei luoghi, un altro ponte ha certamente rivestito il ruolo di “porta della città” – spiega Vescio – Parliamo del “ponte murato” sul fiume Piazza, più comunemente conosciuto come “ponte di Terravecchia”, dal nome dell’antico quartiere in cui ricade. Oltre il ponte di Terravecchia iniziava la strada che conduceva a Sambiase e quindi alla zona marina: esso segnava quindi anche un confine definito del territorio”. Forse passò da lì anche Papa Callisto II, venuto a Nicastro per consacrare la cattedrale normanna nel 1122, transitando a cavallo, secondo fonti storiche, “sulla via di Sambiase”.
“All’indomani dell’Unità, nello slargo vicino al ponte sul Piazza, proprio perché considerato la “porta” principale della città, venne collocato l’ufficio per la riscossione del dazio, e il luogo per un certo periodo assunse la denominazione di “piazza del Dazio”.” Il fiume Piazza, conosciuto in antico anche come “Piccolo Sant’Ippolito”, ha rappresentato anche una via d’accesso da sud alla città, come testimoniato sia dalla veduta di Claude-Louis Châtelet contenuta nel ‘Voyage pittoresque’ dell’Abate di Saint-Non (1783), viaggiatore del Grand Tour, sia dal resoconto di viaggio di Dominique Vivant Denon. È ancora un altro viaggiatore del Grand Tour, questa volta inglese, Henry Swinburne (1743-1803), a lasciare una bellissima testimonianza riguardo l’ultima di questa carrellata delle “porte d’accesso” atipiche della città di Nicastro: la “porta nord”, rappresentata dall’accesso al ripido sentiero, costeggiato da attraversamenti di fortuna, che collegava Nicastro alle colline di Platania e Decollatura, risalendo 'u ‘iummi d’a Serra’, ovvero l’alto corso del torrente Canne.
“Il sentiero, chiamato ‘via dei Cavallari’ o ‘via dei Mulini’, punteggiato infatti da numerosi mulini ad acqua, tra cui l’attuale Mulino delle Fate, si dipartiva nei pressi del rione Casalinuovo e permetteva di raggiungere le aree collinari e le montagne del Reventino a piedi o a dorso di mulo. È un tracciato utilizzato fino al dopoguerra, nonostante la realizzazione della strada statale, da contadini e mugnai e da chiunque ridiscendesse per necessità a Nicastro dalle alture, o risalisse per trovare riparo o difesa nelle gole”. Il luogo, ancora circondato da un bosco lussureggiante e ricco di fauna, a due passi dal centro e dai ruderi del Castello Normanno-Svevo, è circonfuso di antiche storie e leggende: quelle della Fata Gelsomina, del Paggio e della Principessa, o quella del Brigante Cefa, che avrebbe scolpito nella roccia del monte un’anfora di pietra nella quale si nasconde un tesoro. Ultimamente il luogo è stato riqualificato dall’opera dell’Associazione “Amici dell’Antico Mulino delle Fate”, ed è oggi meta di escursionisti alla ricerca di percorsi ancora incontaminati benché da sempre frequentati dall’uomo.
Giulia De Sensi
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