La Pasqua: non solo per i credenti

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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Siamo entrati nella Settimana Santa, il periodo liturgico più importante della religione cattolica, il periodo in cui si offre ai credenti la speranza della resurrezione, la vittoria sulla morte, che è il maggior elemento di insensatezza della vita. So bene che la Pasqua fu strumentalmente sovrapposta alle feste primaverili della rigenerazione agraria (pur sempre riti religiosi), di cui restano segni tangibili ancor oggi in alcuni riti precristiani, proprio qui nel nostro Sud. Vorrei soffermarmi, però, sul fondo del desiderio religioso (dal latino “relegare” ossia tenere separato lo spazio del sacro da quello del profano) che permea di sé le società umane dal momento della rivoluzione cognitiva (nascita del linguaggio, del pensiero simbolico etc.), settantamila anni or sono. Nonostante gli atei, quasi sempre “adepti” (e per ciò stesso anch’essi religiosi, come spiega bene Mircea Eliade in “Il sacro e il profano”, secondo cui perfino i comunisti lo erano) dello scientismo e del riduzionismo ontologico (cioè quell’idea secondo cui è reale solo ciò che è misurabile, calcolabile, esperibile) provino ad osteggiare questa naturale esperienza degli esseri umani, spesso irridendola o trattandola con superiorità.

La vita di ogni uomo è caratterizzata da percezioni, sensazioni, emozioni, desideri, paure, credenze, fedi e, quasi sempre, anche da vere e proprie ossessioni psicanalitiche. E parliamo qui, in massima parte, del regno del non misurabile, del non calcolabile, del non esperibile. Questa è “La condizione umana”. Scrive André Malraux, nel famoso libro con quel titolo, che per fare un uomo non bastano nove mesi, ci vogliono cinquant'anni, cinquant'anni di sacrifici, di volontà, di tante cose; e quando quest'uomo è fatto, quando in lui non c'è nulla né dell'infanzia né dell'adolescenza, quando è proprio un uomo, non è buono che per morire! Ecco l’essenza della condizione umana: l’uomo, a differenza degli animali, sa di dover morire. E questa sua atroce consapevolezza, dicono i grandi filosofi, lo mette dinanzi ad una altrettanto atroce insensatezza. Che ciascuno combatte come meglio può.

Per gran parte delle persone, l’arma per combattere l’insensatezza dell’essere e del dover morire è il naturale istinto a procreare. Per altri è un credo religioso o il senso del sacro. Per altri l’impegno sociale. Per altri ancora il potere politico o quello economico. Per altri l’amore, declinato in molti modi diversi. Per altri la passione per qualcosa, come lo sport, l’arte, lo studio. Per altri, infine, la fede cieca nella scienza. Ma qualunque sia l’arma prescelta, la guerra contro il non senso è stata ingaggiata, in passato, esclusivamente dalla religione, dalla filosofia e dall’arte. Le quali sole, ciascuna a suo modo, si sono chieste “perché” (dandosi le risposte più disparate) ed offrendo “consolazioni” più o meno credibili alle persone. Viceversa, la scienza – che nell’arco di appena due secoli ha letteralmente annichilito le altre tre – non ha alcun interesse a dare risposte alle domande ultime, ma conserva solo la pretesa di dimostrare, secondo i suoi propri principi, il “come” dei fenomeni. Lasciando così gli uomini senza alcuna risposta circa l’ardua domanda sulla condizione umana che da tempo immemore risuona nelle loro menti. Ecco perché anche gli atei – che pure assumono di essere razionali, forti, oggettivi e di non aver bisogno di “consolazioni” o di “superstizioni” o di “illusioni” (a seconda dei punti di vista) –, a mio parere, devono guardare con grande rispetto alle cose della religione ed a quelle di chi crede, di chi, nella settimana appena iniziata nella liturgia cattolica, cerca di dare un senso al non senso della vita.

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