Maida - Es un sentimiento nuevo che mi tiene alta la vita. Un sentimento comune e condiviso, frutto di una visione quanto mai alternativa dei concetti di musica e festival, che da un anno è riuscito a unire due importanti realtà come il Be Alternative e il Color Fest, di nuovo insieme, dopo lo strepitoso live dei Franz Ferdinand a Maida nel 2023, per un doppio appuntamento in grado di segnare uno spartiacque nella calda estate calabrese. Archiviata con successo la splendida giornata in Sila di inizio agosto, in compagnia di Marlene Kuntz, Motorpsycho e Kula Shaker (qui il report), l’esperimento BeColor si è ripetuto ieri sera con la prima volta in Calabria degli Editors, tra i principali esponenti del post-punk revival di inizio millennio, inseriti in chiusura del Color Fest, ormai punto di riferimento indie (per quel che può valere tale definizione) di tutto il Meridione. Un ruolo di primo piano certificato dall’ennesima edizione monstre, la dodicesima, con cui abbracciare – as usual – generi diversi, trend del momento e nomi storici sempre fedeli allo spirito guida del festival. È il caso di comeback di un certo spessore come quello di Cosmo, mattatore assoluto del Day II con un set dai volumi esagerati tra cantautorato e (tanta) elettronica. Un approccio da clubbing capace di trasformare un semplice live in una sorta di rave a cassa drittissima, un flusso continuo guidato dalle note di instant classic quali “Le Voci”, “Tristan Zarra” o “L’Ultima Festa”, ma anche dei vari estratti dalla sua ultima fatica in studio, “Sulle ali del cavallo bianco”: la tiletrack, “Talponia”, “Tutto Un Casino” e le inclinazioni techno di “Troppo Forte”. Menzione d’onore, in particolare, per il trattamento riservato a “Quando ho incontrato te”, privata di buona parte della sua natura synth in favore di chitarre che strizzano l’occhio ai Cure post “Head On The Door”. Sono questi gli highlights dell’ultimo atto del lungo party di Ferragosto targato Color, tra dj set e proposte in linea con quanto visto di recente sul palco dell’Agriturismo Costantino. Un fil rouge ben rappresentato, a due anni di distanza dallo show dei Nu Genea, dal ricco ensemble diretto dal pianista e producer napoletano Bassolino e persino dai milanesi Il Mago Del Gelato, entrambi legati a quei suoni tipicamente mediterranei prossimi al jazz, al funk e alla disco-chic di stampo ‘70s. Funk e suggestioni world di cui si nutrono, sin dal primo album, anche gli I Hate Village (altro ritorno), supergruppo formato da Alberto Ferrari (Verdena), Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Fabio Rondanini (Afterhours, Calibro 35) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle) che ha subito alzato l’asticella del Day I con un set assolutamente esplosivo. Questione di talento e, soprattutto, di idee: la proposta degli I Hate My Village, diretta emanazione delle varie influenze dei quattro musicisti, soprattutto quelle terzomondiste di Viterbini e Rondanini, si è confermata un’onda anomala in un panorama ormai inflazionato come quello indie italiano, spinta verso territori sempre più impervi dalla sana voglia di sperimentare con un immaginario obliquo, che dal blues del Delta conduce ai tribalismi afro di quella new wave vicina all’etno-funk di Talking Heads e King Crimson fase “Discipline”. Una novità assoluta a certe latitudini, messa in piedi da musicisti navigati che, liberi dai diktat delle rispettive band di origine, se ne infischiano di steccati, ambienti e forma canzone, dando vita a qualcosa di unico nel suo genere (d’altronde, “Nevermind The Tempo”, no?).
A tal proposito, chi è certamente fautore di una proposta fuori dal tempo è Micah P. Hinson, cantautore nato a Memphis ma texano d’adozione, che ha sospeso per un attimo le ostilità con il suo songbook dai toni confessionali ben radicato nella tradizione roots americana. Un legame sottolineato da lap steel, banjo e una voce così profonda da provenire dalle viscere della Terra, lo strumento ideale per mettersi a nudo e condividere, con una sincerità a tratti disarmante, storie e canzoni dal sapore autobiografico incentrate su dolore, peccato, redenzione e rinascita. Un cortocircuito non indifferente, soprattutto se collocato tra I Hate My Village e il delirante post-punk di estrazione avantgarde dei Lip Critic, per un toccante viaggio introspettivo nell’anima di un uomo qualunque che ha trovato nella musica la sua ancora di salvezza. Altro set piuttosto atteso era poi quello di Fulminacci, headliner del Day I, protagonista di un live sorprendente in cui il giovane songwriter romano ha dimostrato di aver assimilato la lezione dei vari Daniele Silvestri e Jovanotti, confermando le sue doti di cantautore “classico” abile però a flirtare con i generi più disparati: dall’hip hop (l’opener “Borghese In Borghese”) al trascinante funky di “Tattica”, passando per l’itpop intriso di fiati di “Brutte Compagnie”. Un “giovane vecchio” che, a soli 26 anni, è già riuscito a portare una ventata di freschezza in un panorama musicale asfittico come quello pop tricolore. Niente male, no, ma il meglio, ovviamente, deve ancora venire. Perché sarà proprio la serata conclusiva targata BeColor a consegnare definitivamente ai posteri un’altra edizione da incorniciare, culminata nella prima volta in Calabria degli Editors. Sono trascorsi quasi vent’anni dal debutto di Tom Smith e soci, considerati, almeno inizialmente, la risposta britannica a quegli Interpol che, agli albori del nuovo millennio, sancirono l’ascesa del post punk revival negli States, traghettato successivamente fino ai giorni nostri dai vari Idles, Fontaines DC e Shame. In effetti, le analogie tra la band inglese e quella newyorchese sono parecchie, ma già dal debut “The Back Room” traspariva una sensibilità pop diversa, emersa poi prepotentemente nel successivo “An End Has A Start”, il cui primo posto nelle UK Charts lascerà ben pochi dubbi sul loro potenziale radiofonico. Più U2 prima maniera che Joy Division e Chameleons, insomma, anche se lo spleen tutt’altro che solare continuerà a farli gravitare attorno a quel filone. Almeno fino alla discussa svolta electro di “In This Light And On This Evening”, album che darà il via al processo di emancipazione dai riferimenti di inizio carriera, fino a svelare definitivamente ambizioni da grandi arene, nel segno comunque di una wave ora meno chitarristica e più synth. Un’inclinazione alimentata da una consapevolezza sempre maggiore anche in sede live, come confermato sul palco del Color Fest, unica tappa in tutto il Sud Italia del lungo tour in supporto a “EBM”, del 2022, ultima fatica in studio dal titolo inequivocabile che, non a caso, segna l’ennesimo cambio di rotta, ora incoraggiato dall’ingresso in pianta stabile di Benjamin John Power (aka Blanck Mass), compositore e producer di musica elettronica salito alla ribalta con il duo tribal-techno Fuck Buttons. Una svolta ben rappresentata dai vari brani in scaletta (“Strawberry Lemonade”, “Picturesque”, “Karma Climb” e “Heart Attack”), in bilico tra electric body music, new wave in pieno stile ‘80s e persino punte di psichedelia. Un miscuglio sintetico calibrato alla perfezione da una band ormai pienamente a suo agio nell’alternare tentazioni quasi dancefloor e le tipiche fucilate post-punk apprezzate agli esordi. Perché, al di là del nuovo corso, i classici del passato restano un must da cui non si può prescindere. È il caso di cavalcate dai risvolti epici come “An End Has A Start”, “Bones”, “Munich”, “The Racing Rats” e l’incrocio tra U2 e Echo And The Bunnymen di “A Ton Of Love”, certamente tra i pezzi più coinvolgenti del lotto. Stesso discorso per gli episodi più riflessivi, in particolare “The Weight Of The World” e, soprattutto, una “Smokers Outside The Hospital Doors” da brividi, introdotta da Tom Smith in solitaria prima di librarsi in volo verso dimensioni ultraterrene d’ispirazione shoegaze. Sono questi i momenti cruciali di un live dal grande impatto destinato, inevitabilmente, a rappresentare lo zenit di un’altra edizione di caratura internazionale, arricchita, per restare in tema, dalla space disco psichedelica dei francesi Ko Shin Moon, dalle suggestioni dream pop di Coca Puma, dalle vibrazioni fluide del collettivo teutonico Toy Tonics Jam, dall’universo ibrido esplorato dalla dj egiziana Deena Abdelwahed. E ancora i vari Leatherette, Any Other, Elephant Brain, Populous, Clap! Clap! e tanti, tanti altri: oltre venti nomi in cartellone per una delle migliori annate di sempre, anche sotto il profilo prettamente artistico. È la nascita di un sentimiento nuevo: una “tonnellata d’amore”, per citare gli Editors, firmata Color Fest (e Be Alternative).
Francesco Sacco
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