di Virna Ciriaco
Lamezia Terme, 5 luglio - “Sono stanco, deluso e amareggiato perché non ho visto l’interessamento di nessuno delle isitiuzioni”. Così il collaboratore di giustizia Massimo Di Stefano questa mattina davanti al tribunale di Lamezia. “Sono stato qui due notti e ogni tanto passava una volante. Ho visto che non è cambiato niente, anzi, secondo il mio punto di vista Lamezia è davvero peggiorata. Me ne vado amareggiato. Questa mia protesta, legittima, la continuerò a Roma in altre sedi perché qui ho constatato che nessuno mi dà ascolto. Evidentemente - aggiunge - a quelli che non mi hanno voluto ascoltare vuol dire che piace come sia ridotta questa città: avvolta in questa cappa di omertà e delinquenza”. Sulle operazioni Medea e Medusa, ribadisce il concetto: “è cambiata la musica, ma i suonatori sono sempre quelli perché hanno arrestato Giampà, Torcasio, Notarianni. In futuro - specifica - arresteranno sempre le stesse persone. Tra vent’anni, chi ci sarà, vedrà arrestati i figli dei figli. Questo significa che non è cambiato niente. Si è tagliata un’arteria, ma la mentalità è sempre la stessa. Anzi, è peggiorata”. Sul concetto di arrestare “sempre le stesse persone”, Di Stefano ha poi aggiunto come “la malavita a Lamezia non è solo Giampà, Torcasio e Notarianni ma c’è una famiglia che ha preso il posto della famiglia De Sensi. Una famiglia molto grossa che ha sempre comandato a Lamezia. E quando parlo di Lamezia mi riferisco a Nicastro, Sambiase e Sant’Eufemia. Tutto il territorio e qualche paese limitrofo. E’ una famiglia storica - prosegue senza mai nominarla direttamente - che ha sempre comandato e continuerà a comandare. Non lo so perché non viene toccata. Questo è un interrogativo che rivolgo a chi combatte questo genere di cose. Perché non viene attaccata questa famiglia?”. Sulla zona grigia Di Stefano dice che “se non si va in fondo, significa che c’è qualcosa che non va” e ritorna sul concetto espresso sulle recenti operazioni della Dda “è cambiato qualche suonatore ma la musica è sempre quella. La famiglia grossa, quella che ha i soldi, quella che è in politica, che ha un grosso giro di riciclaggio, non viene toccata. Gli hanno sequestrato una villetta ma gli hanno lasciato fuori altri dieci ville che sono intestate ad altri e che valgono molto di più. Questo è ciò che accade”. Di Stefano ribadisce di essere “deluso e amareggiato”, a breve andrà a Roma dove è stato convocato per testimoniare ad un processo. “Ecco, dicono che sono poco credibile, allora perché ancora mi convocano a testimoniare? E poi perché mi hanno tenuto per 16/17 anni sotto protezione se non ero credibile? Vorrei che ora mi dicessero i motivi per cui non sono credibile”.
La protesta
“Sono qui a protestare per quello che sta subendo la mia famiglia, le persone che mi hanno seguito nel mio percorso di pentito. Io non voglio il programma di protezione - dice - voglio solo che la mia famiglia possa vivere dignitosamente. Perché vent’anni fa mi hanno promesso il reinserimento sociale. Io non voglio fare il mantenuto, il parassita. Voglio solo che mantengano quanto avevano promesso, ossia il reinserimento sociale, specie per la mia famiglia. Poco fa uno con uno scooter, parente dei recenti arrestati, mi si è avvicinato e mi ha stretto la mano dicendomi ti raccomando. Non ho paura. Certo, sembra che per dare una mano alla mia famiglia qualcuno debba farmi un attentato”.
Il dialogo mancato
“Volevo un dialogo con qualcuno delle istituzioni di questo territorio: Prefetto, Questore, Commissario di polizia. Invece sono stato qui per due giorni e due notti e non ho visto nessuno. Credo che se una persona vive un disagio debba essere ascoltata. Avrei voluto che qualcuno mi avesse chiamato e mi avesse detto anche solo se avevo torto o ragione”.
La pistola trovata in casa e la revoca del programma
“Nel 1999 ho chiesto di uscire fuori dal programma di protezione per iniziare il reinserimento sociale. Mi è stato risposto che era tutto subordinato al cambio di generalità. Il 2008 mi è stata trovata una pistola acquistata da me all’armeria Mercuri in via del Progresso nel 1984. C’è da dire che quando mi è stata revocata la detenzione, le armi che avevo dichiarato, visto che avevo il porto d’armi per un fucile, le ho cedute a mio padre. Nel 2000 mio padre è deceduto e la pistola è ritornata in mio possesso. Ho sbagliato, lo ammetto, ma non è una pistola che mi è stata trovata alla cinta: era su un armadio di casa. Si tratta di una pistola dichiarata, di famiglia e non ricettata. Sono stato condannato è ho scontato tredici mesi nel carcere di Rebibbia ma ho avuto riconosciute le attenuanti generiche. Non è giusto revocare il programma alla mia famiglia: se io ho commesso un reato, perché ne deve rispondere mia moglie, i miei figli, i miei cognati e nipoti? Io chiedo solo il reinserimento sociale per quello che ho dato in 17 anni”.
L’opinione sui recenti collaboratori di giustizia
“Tra gli ultimi pentiti conosco solo Rosario Cappello perché siamo coetanei. Gli altri, quando io ho iniziato a collaborare e sono partito, erano solo ragazzini. Da quel poco che ho letto, Rosario dice cose vere anche perché era dentro all’organizzazione. Ribadisco: gli ultimi fatti mi danno ragione, cambiano i suonatori ma la musica è quella”.
L’invito a pentirsi
“Sono orgoglioso di aver collaborato per 17 anni, anzi, invito tutti quelli che fanno parte della ‘ndrangheta a collaborare con la giustizia. Li invito a collaborare, ma a non fare lo stesso errore che ho fatto io. Devono farsi mettere nero su bianco cosa sarà dato loro dopo. A me all’inizio hanno fatto diverse promesse, poi più niente”.
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