“Benson - La Vita È Il Nemico”, fenomenologia di Richard Benson al TIP di Lamezia

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Lamezia Terme - La vita è il nemico. E se è vero che, per farsi dei nemici, basta dire ciò che si pensa, inevitabile, per uno come Richard Benson, farci costantemente a cazzotti. Lo ha fatto, orgogliosamente, per 67 anni, fino al gong di quell’ultima campanella che il 10 maggio 2022 ha privato l’underground romano di uno dei suoi antieroi più controversi. Musicista, personaggio televisivo, ma soprattutto agitatore musicale, Benson è riuscito ad arrivare a quell’ultimo round, seppur a fatica, dopo aver vissuto in prima linea almeno quattro decenni di cultura pop italiana, in cui si è affermato come figura di culto anzitutto del sottobosco capitolino, vivisezionato attraverso trasmissioni televisive dai contenuti certamente nobili, ma trattati in modo talmente parossistico da sfociare nel trash.

Già, perché facile gettarlo in quel calderone dopo essersi imbattuti, su YouTube, in qualche spezzone di “Ottava Nota” o in qualche delirante testimonianza di esibizioni dal vivo che di live in senso stretto avevano ben poco. Erano, semmai, occasione per dar sfogo alla prassi goliardica, presto degenerata, di lanciare insulti e oggetti di ogni tipo contro il povero Richard, costretto a enfatizzare la sua componente giullaresca pur di sbarcare il lunario. Lui negherà, sempre, rivendicando l’autenticità di quel rapporto conflittuale, così “passionale” da diventarne dipendente, ma l’impressione è che fosse soltanto lo script di un giullare triste, per tornare a quel prog che lo ha svezzato prima del ruolo di “defender of the faith” heavy metal. Perché “Er Parrucca”, come veniva chiamato per via dell’immancabile toupet nero corvino, era molto più di questo. Difficile stabilire chi o cosa, ma vale la pena fare un tentativo. Ci ha provato il regista Maurizio Scarcella, autore del documentario “Benson – La Vita È Il Nemico”, candidato ai David di Donatello 2024.

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Introdotto da un video saluto dell’autore, accompagnato dall’inseparabile moglie di Benson, Ester Esposito, il film è stato presentato ieri sera, per la prima volta fuori dai confini laziali, in un TIP Teatro di Lamezia Terme vicino al sold-out, prova inconfutabile di un interesse più che mai vivo verso una figura larger than life, ancor oggi al centro di leggende metropolitane spesso autoalimentate o persino autoindotte. A partire dalle tanto chiacchierate origini: sarà effettivamente nato a Woking, in Inghilterra, come Richard Philip Henry John Benson? O è soltanto il nome d’arte dell’italianissimo Riccardo Benzoni? Beh, il “Re del metallo” ha sempre rivendicato la sua appartenenza alle terre d’Albione, con tanto di prove sbandierate davanti alle telecamere, ma con scarsi risultati. D’altronde, difficile prendere sul serio chi ha sempre fatto dell’iperbole un suo marchio di fabbrica, proiettando fatti realmente accaduti in dimensioni così estreme da rasentare il ridicolo. Dunque, chi è davvero Richard Benson? Una domanda a cui Scarcella cerca di rispondere con tutti i mezzi a sua disposizione, incluso il racconto in prima persona dello stesso musicista (non esattamente la più attendibile delle fonti, ma tant’è).

L’idea nasce nel 2016, in seguito alla richiesta di sostegno economico avanzata a RepubblicaTv, e si è sviluppata, per tutto il suo arco produttivo, come progetto indipendente, portando il regista a seguire da vicino la quotidianità dei coniugi Benson per ben 18 mesi. Un periodo segnato da una profonda indigenza, triste punto di partenza di un documentario che non può prescindere dalla grande sofferenza in cui ha visto la luce, senza però dimenticare il focus del discorso: riabilitare la figura del suo protagonista agli occhi delle nuove generazioni. Una mission decisamente riuscita, grazie anche alle preziose testimonianze di collaboratori e volti noti che nel tempo lo hanno frequentato. Da Vittorio Sgarbi a Max Giusti, passando per Federico Zampaglione, Massimo Marino (il re del trash romano), musicisti d’eccezione come John Macaluso e tanti, tanti altri. C’è chi lo paragona a un poeta maudit, trovando persino analogie con Alda Merini, chi accosta la sua espressività e il suo carisma a Carmelo Bene, e poi c’è chi preferisce ricordare l’uomo dietro la maschera, soffermandosi, in particolare, su quella parabola discendente che lo aveva trasformato in qualcos’altro: “la valvola di sfogo per coatti frustrati”.

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Perché, sin dagli anni ’70, nonostante stravaganze già piuttosto evidenti, nell’ambiente musicale dell’Urbe, Benson era una figura stimata: un’enciclopedia vivente del rock, un divulgatore colto e appassionato, inizialmente baciato anche da un discreto talento poi perso per strada (ascoltare gli esordi prog nei Buon Vecchio Charlie per credere). Ben presto, però, sarà il personaggio a prendere il sopravvento, oscurando l’artista e, successivamente, la persona, fino a imboccare il tunnel della demenzialità. Irreversibilmente. Eppure, sarà proprio quel mix di competenza e assurdità ad attirare l’interesse di gente come Roberto D’Agostino per “Quelli della Notte” o Carlo Verdone, che lo inserirà in un esilarante cameo “all’idrogeno” in “Maledetto Il Giorno Che T’Ho Incontrato”, facendolo uscire da quella nicchia di cui era re indiscusso per consegnarlo alle masse. Un re rimasto senza trono (ma mai senza la sua regina) negli ultimi, complicati anni, accompagnati giusto da un bastone tutt’altro che regale. Un oggetto “infernale”, semmai, donatogli dal diavolo in carne e ossa, o magari semplicemente trovato alla Stazione Termini. Colpa del famigerato incidente avvenuto sul Tevere a inizio millennio, quando il chitarrista è precipitato da Ponte Sisto rendendo necessari diversi interventi chirurgici. Qualcuno lo ha spinto, dice, ma l’ipotesi tentato suicidio resta la più accreditata. È questo un primo importante spartiacque nel racconto di Scarcella, cui seguirà, nel 2005, l’ormai famigerato “sacrificio del pollo”, durante il “Natale del Male” al “Coetus Pub” di Roma, vero punto zero della sua definitiva conversione in simbolo trash.

Un processo analizzato con estrema sensibilità dal regista, autore di un excursus particolarmente accurato, che oscilla in perfetto equilibrio tra un passato certamente più “glorioso”, ben documentato dalla notevole mole di materiale d’archivio e dai contributi di chi lo ha vissuto da vicino, e un presente gramo comunque negato dallo stesso Benson, sempre pronto a mistificare la realtà pur di non mettere a repentaglio la propria indipendenza. I passaggi dolorosi (Richard ed Ester separati in diverse strutture di ricovero ospedaliero o quello sguardo, troppo spesso, assente) non mancano, quasi a confutare, ancora una volta, le convinzioni del protagonista, ma la narrazione resta consapevolmente sbilanciata verso il ricordo di ciò che è stato, per quanto eccessivo e sopra le righe. Perché, in fin dei conti, l’obiettivo mai nascosto del sentito omaggio di Scarcella è proprio quello di restituire dignità a una figura borderline, discussa e divisiva, come solo i grandi iconoclasti sanno essere. Una dignità quasi letteraria per una storia vera ma piena di bugie, figlia del reale ma orientata, verosimilmente, verso il mito. Come la vita, pardon, il nemico di Richard Benson.

Francesco Sacco

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