Lamezia Terme - Riceviamo e pubblichiamo un ricordo di Giuseppe La Gamba, meglio noto come "’U zzu Peppi", storico portabagagli della stazione di Lamezia scomparso qualche anno fa, da parte di un nostro lettore, Ettore Benforte.
“’Dotto’, a me il trolley mi ha rovinato!’. Incontro Giuseppe nella stazione ferroviaria di Lamezia Terme. Il treno da Roma delle sedici e cinquantuno si ferma per pochi minuti e mi permette di fare solo una breve conversazione, qualche scambio di battute in uno dei miei tanti interminabili viaggi mensili da Latina a Catania. Dieci ore piene di noia, mitigate solo dalla lettura di un buon libro, da qualche conversazione con la gente più disparata e da un panorama bellissimo, benché devastato dalla stupidità degli uomini. Coste, golfi e verdi dirupi su quello che doveva essere un mare trasparente, dal litorale campano fino alla punta della Calabria. Fermo nella stazione di Lamezia, nel tempo breve di una sosta del viaggio dell’intercity 727 da Roma a Siracusa, con un occhio alla bandierina del capotreno, ascolto la storia di Giuseppe, forse l’ultimo portabagagli d’Italia. Ero sceso dal treno durante la fermata, assieme agli immancabili soliti fumatori in astinenza, per sgranchirmi le gambe dopo cinque ore seduto nello scompartimento, spinto dalla curiosità che mi metteva vedere un anziano omino che lungo la banchina della stazione spingeva un enorme carrello di ferro. Nelle nostre stazioni ferroviarie non c’è più la figura del portabagagli o del facchino, che dir si voglia, soppiantata prima dai carrelli messi a disposizione dalle Ferrovie dello Stato, poi misteriosamente scomparsi, ed infine dall’arrivo del trolley. Quel personaggio mi aveva incuriosito, sembrava l’ultimo dei garibaldini nelle storie del primo novecento. Era una figura smilza dalla faccia scavata e buona (ma può mai essere cattivo uno che si ostina a lavorare ancora in tarda età?), indossava una camicia azzurra a maniche corte dalla quale sporgevano due braccine magre e nervose, in testa un cappello da ferroviere con su scritto: portabagagli. Altre volte dal finestrino del treno lo avevo osservato attendere inutilmente qualche cliente che gli affidasse le valigie per il breve tratto dai binari fino all’uscita della stazione. Quel giorno, invece, avevo deciso di parlargli, di conoscere la sua storia. Senza alcuna diffidenza, sempre accanto al suo carrello, Giuseppe, così disse di chiamarsi, cominciò a rispondere alle mie domande.
- Di anni ne ho settantatré, ho moglie e quattro figli tutti sposati, grazie a Dio – aggiunse, levandosi l’improbabile cappello da portantino “regolare” delle FF.SS.
- sono pensionato, ma non basta, la vita costa ed i soldi fanno sempre comodo, non vengo sempre, solo quando ci sono i treni che scendono dal Nord.”
Poco alla volta mi raccontò un pezzo della sua vita, brevemente, quanto lo permetteva la sosta del treno a Lamezia. Una vita di sacrifici in una terra bellissima, la Calabria, ma poco generosa per colpa degli uomini che la governano. Così Giuseppe, per arrotondare la pensione di quattrocento euro al mese, nonostante l’età, continuava ad andare avanti ed indietro lungo le banchine dei treni, trascinandosi appresso l’enorme carrello di ferro. Il facchino, termine che richiama meglio alla mente il valore della fatica e del sudore, è il lavoro umile e semplice di chi negli anni ’50-’60 dava aiuto e conforto a coloro che sarebbero partiti un giorno e tornati carichi di valigie da Milano o dalla Germania. Un viaggio interminabile in carrozze affollate, torride d’estate e gelide d’inverno, carrozze che traboccavano di miseria e di speranza. Affidarsi alle cure, ai servizi del facchino Giuseppe, voleva dire il sollievo, se pur momentaneo, dall’incombenza dei bagagli che, nelle sue mani, sarebbero stati al sicuro, magari dopo averli contati due o tre volte, non si sa mai.
- Ci sono tutti? Andiamo! E Giuseppe andava, spingendo l’enorme carrello con le valigie degli emigranti che tornavano a casa portandosi appresso un pezzetto di quel benessere che si erano tanto faticosamente guadagnati in anni di lavoro. E Giuseppe La Gamba, questo il suo curioso cognome per uno che fa il portabagagli, trascinava il suo carrello con le maniglie di plastica consunte dagli anni e dal sudore.
Al nostro secondo incontro Giuseppe sembrava aspettarmi proprio all’uscita della carrozza. Gli chiesi di poterlo fotografare, il personaggio lo meritava. Mi sembrava proprio l’immagine giusta di uno di quei personaggi che facevano parte dell’iconografia di una stazione ferroviaria di metà novecento. Lui, con un sorriso, aveva subito acconsentito. Poi, sempre di fretta, nel breve tempo della sosta del treno, aveva continuato a raccontarmi di sé, sorpreso dalla mia curiosità, con un occhio sbirciando inutilmente possibili clienti. Nessuno! Fu al terzo incontro, in marzo o in aprile, non ricordo, che Giuseppe, pur tra il frastuono dello sfrecciare dei treni nei binari accanto, mi parlò dei trolley.
- Dotto’ – aveva capito che non ero un emigrante e nemmeno un turista qualsiasi – dotto’, da quando hanno inventato le valigie con le ruote, il nostro mestiere è finito. Io continuo a venire a lavorare, ma non sempre solo quando arrivano gli intercity da Roma e il Freccia Bianca per Reggio Calabria, ad una certa ora me ne torno a casa a godermi la famiglia e i nipoti. Lavoro ancora un poco per arrotondare la pensione e poi dopo tanti anni la stazione di Lamezia Terme è un poco come casa mia, ma i clienti di una volta non ci sono più, nessuno ha bisogno di me, “ci hanno le ruote”!
Era vero, il suo mestiere scomparso come quello del ciabattino o del sarto, quello di una volta, di quelli che i vestiti li facevano su misura, non solo l’orlo ai pantaloni. Anche per il “suo” mestiere era iniziato l’oblio. Da un momento all’altro, due piccole rotelle applicate al fondo di una valigia, hanno reso inutile e sorpassato il lavoro di Giuseppe ed hanno cambiato il nostro modo di viaggiare, le valigie sono diventate sempre più grandi, sono lievitate, poco alla volta. Ce ne accorgiamo sui treni, negli scompartimenti che non bastano a contenerle come sono, sempre più capienti ed ingombranti. Avere un trolley enorme ci rassicura, anche se viaggiamo per pochi giorni ci sentiamo più tranquilli, quasi che la nostra casa con tutte le sue comodità ce la portassimo appresso. Ci gratifica l’idea che in viaggio e nel luogo dove andiamo si possa disporre di tutto: “tanto c’entra”. Solo in aereo ci viene imposto un limite e si paga il peso eccedente, in quel caso dobbiamo fare scelte drastiche e comprare un trolley formato mignon, rinunciando “dolorosamente” al resto del bagaglio. In treno no, non sembrano esserci limiti di peso né di volume e ci portiamo appresso cose che non ci servono affatto, che non ci serviranno mai.
- Ma che fa, tanto tieni ‘o trolley - e si carica, si carica. Se una di quelle famose università americane che finanziano studi su tutto, facesse una ricerca sul contenuto dei trolley dei vacanzieri italiani, scoprirebbe che l’ottanta per cento del loro contenuto è inutile. Te lo porti appresso e, come sta, pari pari, ancora piegato, te lo riporti indietro quando torni a casa! Di qui le scene negli scompartimenti dei treni traboccanti di trolley giganteschi che, inutilmente e pericolosamente, si cerca di issare sopra le teste dei viaggiatori o parcheggiare lungo gli stretti corridoi degli scompartimenti. Del resto, mentre il trolley diventava più grande, le carrozze erano sempre le stesse, non si potevano allargare! Il trolley deve entrare per forza nello scompartimento, anche a costo di lasciare fuori qualche viaggiatore. Oggi in ognuna di queste nostre valigie rotolanti ci entrerebbe, forse comodamente, tutto ciò che una famiglia di emigranti degli anni ’50 si poteva portare appresso allora! C’è un momento, però, in cui il portatore di trolley si rende conto di quanto il non affidarsi ad un più normale e meno voluminoso bagaglio, sia stata una scelta infausta. E’ quando, dopo aver trionfalmente trascinato il nostro trabiccolo lungo le banchine del treno, ci si trova a dover scendere o, ancor peggio, salire le scale delle stazioni che non hanno una scala mobile! Lì, a quel punto, ci si guarda intorno smarriti, i più (e sono le donne e le persone anziane) cercano disperatamente qualcuno che li aiuti, li sollevi dalla condanna che si trascinano appresso, ma nessuno è disposto a farlo, non è possibile, tutti hanno i loro trolley, enormi e pesanti. Rifletto sul nostro rapporto con le tante cose di cui non abbiamo realmente bisogno, ma che ci sembrano assolutamente indispensabili e che portiamo con noi anche se il nostro viaggio dura pochi giorni. Tutto quello che abbiamo nei nostri capienti trolley, in fondo, è solo un supporto psicologico e funziona come una terapia rassicurante, una metafora della nostra società bulimica, una coperta di Linus che, però, finisce per soffocarci e condizionare il nostro viaggiare! Tutto questo Giuseppe non può saperlo, ma ha compreso che il suo mondo, lungo le banchine della stazione di Lamezia Terme, è cambiato, che sono altri tempi, diversi da quelli in cui aiutava gli emigranti a caricare negli scompartimenti del treno le valigie di cartone legate col filo di spago, in cui assisteva alle scene di pianto di chi restava sulla banchina o di chi poi tornava qualche anno dopo e si riprendeva in un solo sguardo, appena sceso dal treno, la sua terra di Calabria fatta di luce, di odori e di suoni familiari. Giuseppe questo lo ricorda bene, lui che da quella banchina della stazione di Lamezia non si è mai mosso ed ha visto, invece, partire e tornare la vita degli altri. Questo lui lo intuisce appena con rassegnazione ed è felice ugualmente.Al quarto incontro Giuseppe, che per l’occasione esibisce una giacca da ferroviere anni ’60, mi racconta dei figli sposati, che stanno tutti bene e lavorano. Non gli chiedo se uno di loro abbia scelto di continuare il mestiere paterno, mi sembra un’offesa alla sua intelligenza. Ci salutiamo in fretta, mi sorride. Il treno riparte. Giuseppe fa un gesto con la mano, l’altra è poggiata all’enorme carrello di metallo. Rapidamente i viaggiatori, appena scesi dagli scompartimenti, si dirigono all’uscita trascinando i loro trolley. L’altoparlante sopra di me annuncia, con la stessa voce monotona di tutte le stazioni d’Italia, qualcosa che non capisco. Dal treno l’ultimo sguardo è per Giuseppe e il suo inseparabile carrello di ferro sulla banchina di Lamezia Terme, in attesa del prossimo intercity.
P.S.: Da qualche anno Giuseppe non c'è più, non è più tra noi, si dice per non nominare la morte. Nella stazione di Lamezia Terme il suo carrello di ferro è ancora là, attaccato ad un palo con una catenella. Nel posto dove è andato Giuseppe nessuno porta le valigie, si viaggia leggeri, così come si nasce!”.
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