Di Battista Notarianni
Giuseppe Giampà è un consanguineo nella cosca Giampà. Lei, dottor Ruperti, in un’altra intervista ci parlò del fatto che il pentimento di un consanguineo di una cosca ha un’importanza maggiore rispetto agli altri eventuali pentiti proprio per la particolarità della situazione. Come giudica quindi complessivamente la figura di Giuseppe Giampà?
“Giuseppe Giampà da questo punto di vista è un fattore straordinario, nel senso che il suo pentimento sradica dall’interno quelle che sono anche delle convinzioni stratificate, presenti anche nei libri sulla ‘ndrangheta, quelle che sancivano che gli ndranghetisti non si pentono in quanto sono proprio legati quasi sempre da un legame di sangue ai componenti che fanno parte del clan. Prima abbiamo avuto i pentimenti di Torcasio Angelo, di Cosentino Battista, che comunque erano degli adepti del clan con ruoli anche importanti, specialmente Torcasio Angelo, poi già si era creata una sorta di discrepanza abbastanza forte rispetto ai canoni ‘ndranghetisti quando abbiamo avuto il pentimento dei Cappello. I Cappello sono in effetti nel loro piccolo - anche se sicuramente non era un contesto familiare grande come quello dei Giampà - comunque una ndrina collegata, erano comunque dei soggetti altamente mafiosi, soprattutto Rosario Cappello che è cresciuto a pane e ndrangheta. Il pentimento di Giuseppe Giampà è straordinario sia perché sradica le convinzioni sulla ‘ndrangheta ma soprattutto per quello che dal punto di vista della collaborazione sta dando. Lui è il mandante, è quello che organizzava, è quello che organizzava gli omicidi, il traffico di stupefacenti, le estorsioni, i business illeciti della cosca. Il suo pentimento pone poi la stessa cosca in una condizione di grande difficoltà, sia per quanto riguarda i familiari, quelli più anziani di lui, ma soprattutto per tutte le giovani leve che lui comandava, perché nel momento in cui lui si è pentito chi li mandava sta ponendo tutti questi davanti a una situazione di totale confusione”.
Tutta gente che era ai suoi ordini…
“Questi gli obbedivano perché obbedivano al figlio del “professore”, al predestinato, a quello che doveva essere ed era in quel momento il capo assoluto della famiglia Giampà, quello che tra le altre cose manteneva i contatti con tutti i referenti apicali delle cosche del panorama regionale”.
Lei ha parlato di nove pentiti assolutamente utili per i fatti che raccontano. Nove sui quasi venti che ufficialmente sono diventati collaboratori di giustizia. Le dichiarazioni di questi nove sono state confermate da Giuseppe Giampà?
“ Sì, diciamo che noi stiamo lavorando per riscontrare tutte le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, parzialmente l’abbiamo già fatto, ci stiamo lavorando tantissimo. Giuseppe Giampà non solo in alcuni casi li riscontra ma chiaramente, avendo avuto un ruolo di vertice all’interno, di tutti questi che in qualche modo stanno collaborando se ne accolla le responsabilità e dice che era lui che li mandava spesso a fare queste azioni, delle quali questi nove si stanno accusando e accusano anche altre persone”.
Quali sono i pentiti che giudica i più importanti?
“La stagione dei pentimenti di un’importanza assoluta e strategica inizia con il pentimento di Torcasio Angelo, perché si pente dopo tre o quattro giorni di carcere, cioè fino a tre o quattro giorni prima era il collante delle tangenti del clan Giampà. Quindi ha un’importanza strategica fondamentale perché ci riferisce le cose fino al giorno prima. Poi al pentimento di Torcasio Angelo si aggiunge quello di Cosentino Battista, questo è fondamentale perché Cosentino Battista spesso era un uomo che andava in giro, quindi sono due pentiti che si sono chiaramente riscontrati tra loro perché parlavano più o meno delle stesse cose. E qui che inizia la stagione dei pentimenti. Poi abbiamo due, diciamo, collaborazioni di straordinaria importanza con un intera famiglia che si pente e cioè quella dei Cappello e poi arriviamo al pentimento di Giuseppe Giampà che oggi butta nella confusione più profonda tutti gli adepti al clan, che in qualche modo barcollano un po’ tutti. Questi sono stati i pentimenti fondamentali che si sono registrati. Poi è chiaro che i pentimenti avvenuti in passato hanno fatto raccogliere molto materiale. Ma questi che ci sono stati in questo breve lasso di tempo rappresentano un fatto storico”.
Questi qui attraverso i loro pentimenti avranno degli sconti sulle condanne, o cos’altro potranno avere in cambio?
“Sicuramente la legge prevede la possibilità per chi si pente e permette di scardinare dall’interno un sistema criminale uno sconto di pena. E’ chiaro che se uno ha commesso un omicidio risponderà dell’omicidio che ha commesso però ci sono dei benefici premiali previsti dal nostro codice per chi collabora con la giustizia. In effetti è vero che il pentito paga di meno per quello che ha fatto però permette anche di dimostrare tutta un’altra serie di altri, ovviamente se dice la verità. Se non dice la verità tutti i benefici premiali non li avrà”.
Lei prevede che ci saranno ancora altri pentiti?
“Sicuramente sì, poi bisogna vedere il contenuto, la qualità di quello che possono portare alle indagini, poi noi valutiamo tutto, però la scelta finale spetta alla Procura”.
Il top comunque è stato raggiunto con Giuseppe Giampà?
“Giuseppe Giampà è il capo, quindi nel momento in cui si pente un capo e chiaro che tutti quelli che hanno preso ordini da quel capo entrano in confusione totale, perché pensare di farsi l’ergastolo, perché di ergastolo si tratta quando sono accusati di più omicidi, su ordine di una persona che si è pentita crea delle grosse confusioni, quindi poi si crea un meccanismo mentale tale da portarli a rivolgersi alla giustizia”.
Emerge da quello che è venuto fuori fino ad adesso una figura di un capo, Giuseppe Giampà, che non aveva remore a programmare e fare eseguire gli omicidi. Nell’uccisione dei due Torcasio Carrà - dichiara uno dei pentiti - voleva che Torcasio Francesco venisse ucciso proprio nel trigesimo della morte del padre.
“Guardi, queste sono delle faide mai sopite, ci sono dei periodi in cui hanno una tregua perché hanno dei carcerati o hanno dei morti, perché i Giampà negli ultimi anni, anche abbastanza lungo, hanno dominato nella città di Nicastro, soprattutto su via del Progresso e su tutte le zone dove loro si interessavano. L’evento scatenante di questa faida è il fatto che i Torcasio e in particolare il Carrà aveva mandato a fare un’estorsione in un distributore di benzina controllato dai Giampà. Questo è stato visto come un affronto e quindi come un pericolo per la cosca Giampà, se in qualche modo non avessero agito. Da lì, dunque, è partito il primo tentato omicidio a Muraca Umberto Egidio e a Paradiso, rei di aver posto in essere queste azione, e successivamente è stata decretata l’uccisione di chi aveva pensato di poter riprendere le fila dei Torcasio con estorsioni nei territori controllati dai Giampà. E’ chiaro che per fare una guerra ci vogliono i soldi, bisogna in qualche modo avere i killer, pagarli e tutto il resto. I Giampà sotto questo punto erano più forti sul territorio, perché raccoglievano più estorsioni, avevano più uomini perché “gli davano da mangiare” e soprattutto perché avevano dei killer fatti in casa, come Vasile, la cui storia è quella di un killer fatto in casa, mentre invece in passato i Torcasio, tranne quelli arrestati, per un omicidio importante come quello di Perri si rivolsero ad un killer che veniva dalla locride. Pagarono 30 mila euro all’epoca, quindi un killer gli costava.
A Vasile invece diedero 3600 euro per l’uccisione dei Torcasio Carrà.
“Sì, ma proprio perché Vasile era un killer fatto in casa, uno che avevano visto che aveva una maggiore predisposizione per uccidere, basta pensare all’omicidio fatto al campetto di calcio, davanti a tutti, bisogna avere molta freddezza”.
E’ evidente la guerra contro i Cerra-Torcasio- Gualtieri ma c’è poco o nulla nei confronti dell’altra cosca dominante a Lamezia quella degli Iannazzo.
“Sì, perché c’era una sorta di patto di non belligeranza con dei criteri più definiti di spazio. Anche su questo stiamo lavorando”.
Vuol dire che state indagando ora sulla cosca Iannazzo?
“Diciamo che ci stiamo lavorando, quindi per il momento non ne possiamo parlare. Di sicuro possiamo dire che c‘è molto materiale che in questo momento stiamo analizzando, studiando con una certa dovizia come ci viene chiesto dalla DDA, perché quello che vogliamo mandare alla Procura è un prodotto almeno da parte nostra molto chiaro perché poi tutto quello che raccogliamo dovrà avere degli esiti naturalmente processuali, si lavora con “una fretta giusta”, cioè nel senso che si lavora per definire bene tutti i contesti”.
Si è fatto un’idea di quanto sia il giro d’affari della cosca Giampà? Estorsioni, armi, traffico di stupefacenti…
“Notevole, milioni di euro. Perché quasi tutte le attività erano sotto estorsione, poi gli affiliati alla cosca erano tanti e quindi dovevano percepire uno stipendio. In base alla mia esperienza abbiamo visto che loro avevano un gruppo di persone molto notevole che partecipava agli omicidi, cioè chi partecipava agli omicidi erano in 15-16 persone, era un gruppo di fuoco molto forte, che non ho mai visto in altre realtà criminali di cui mi sono occupato. Spesso negli altri clan a sparare erano uno o due persone qui invece avevano un gruppo di fuoco importante”.
A conti fatti la cosca è decapitata, come ha ammesso anche Giuseppe Giampà, quindi di fatto cambia la situazione di imprenditori e di commercianti che subivano il pizzo e le intimidazioni da parte di costoro. Questo potrebbe convincere queste vittime a rivolgersi alle istituzioni. Ma semplificando ora con chi dovrebbero parlare?
“Adesso possono parlare con le Forze dell’Ordine. Possono scegliere di chi fidarsi maggiormente, però hanno dei riferimenti validi sul territorio, non che non ci fosse prima ma ora c’è una posizione di privilegio perché ora stanno parlando gli stessi banditi, sono loro che per primi stanno dicendo cosa è successo. Una forma di collaborazione da parte dei commercianti, degli imprenditori, ora c’è ed il passo in avanti in tal senso è una conferma per tutto quello che è successo in passato. Ma adesso, nel momento in cui qualcuno non si fa avanti, non parla, il motivo della paura della cosca non è più valido. Il commerciante vittima del pizzo non può più celarsi dietro la paura perché non si può avere paura di confessare di aver pagato un’estorsione quando sono gli stessi estorsori a dire che erano loro che chiedevano il pizzo! Nel momento in cui qualcuno non parla ci lascia aperti scenari di pensiero un po’ diversi perché quello che è anche emerso è che alcuni commercianti pagavano però parzialmente e nel momento di necessità si servivano della cosca, avendo così una sorta di protettorato. Sicuramente casi minimi rispetto alla maggior parte di persone che hanno pagato, perciò questo è un invito a tutti quelli che sono stati veramente soggetti passivi di farsi avanti perché oggi non c’è da aver paura. Non è più un alibi, perché avendo Giampà, Torcasio, i Cappello che ci dicono che tizio pagava ogni mese, che comunque tale imprenditore pagava, non ci capisce perché tutte queste persone che sono state vittime non vengono fuori, perché non vengono a denunziare ma ad ammettere quella che è stata la situazione. Del resto sappiamo che una piccola parte di questi imprenditori pagavano per ottenere una sorta di assicurazione anche contro le concorrenze, chi non si fa avanti quindi entra in una zona grigia tenendo pure presente che davanti a contestazioni ben precise con dichiarazioni di più collaboratori negare la verità porta ad un passo del reato di concorso in associazione mafiosa o favoreggiamento”.
Lei si aspetta una maggiore collaborazione, un sostegno maggiore da parte della popolazione di Lamezia?
“Io non ho mai pensato che i cittadini debbano essere degli eroi, però se un fenomeno come quello della ‘ndrangheta gli pesava e lo vivevano con una forma di soggezione reale, questo è un momento di una positività unica. Io ho lavorato in realtà come nel Vibonese, nel Casertano, ad alta intensità mafiosa e lo dico senza paura di essere smentito che un fenomeno come quello che si sta registrando su Lamezia Terme non si era mai registrato. Cioè un intero clan che si sta sradicando dal suo interno e che sta ammettendo le proprie responsabilità permettendoci poi di aprire scenari importantissimi su tutto il resto. I cittadini di Lamezia Terme se vogliono hanno tutta la possibilità di riprendersi la propria città”.
Nel momento in cui si affloscia una cosca di quel livello lì, lo spazio viene occupato da altre cosche?
“In questo momento io credo che tutte le cosche di Lamezia Terme hanno ben altro a cui pensare piuttosto che cercare di rioccupare spazi, tutto dipende da quello che è la reazione della cittadinanza, perché in questo momento ci sono delle cosche alla sbando, basta pochissimo per farli arrestare senza avere alcune paure”.
Ma se un commerciante, che pagava il pizzo ai Giampà, adesso viene contattato e minacciato da un esponente di un’altra cosca?
“E’ difficile che una situazione avvenga così in questi termini, perché c’è una profonda riflessione di tutti i banditi, hanno anche il timore di esporsi in questo modo, poi se le paure dei cittadini fanno diventare qualcuno più grande di quello che è allora su quello purtroppo la risposta non la può dare la Polizia, la Magistratura, è una risposta sociologica se uno si sente più sicuro a pagare qualcuno. Il discorso è un altro: invitare la gente a non avere paura ad essere in un certo senso più coraggiosi perché ora si sa a chi rivolgersi”.
Il Lametino 193
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