Lamezia Terme – Era il 4 gennaio di 25 anni fa. Erano passate le 18 quando in via dei Campioni a Lamezia Terme si consumava un brutale duplice omicidio: quello del sovrintendente della Polizia di Stato Salvatore Aversa e di sua moglie, Lucia Precenzano. Erano i giorni che precedono l’Epifania e l’aria festiva si sentiva ancora per le strade. Si era chiuso il 1991, un anno in cui Lamezia era stata protagonista delle pagine della cronaca e della cronaca politica: era ancora fresco lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose ed era ancora vivo il ricordo dell’omicidio dei due netturbini, Francesco Tramonte e Pasquale Cristiano.
Poco prima delle 19 i carabinieri di Lamezia vennero informati di una sparatoria in via dei Campioni: arrivati sul posto trovarono una Peugeot 205 blu con la portiera anteriore destra aperta, la chiave inserita e il quadro acceso. Con la testa poggiata sul volante c’era il corpo del Sovrintendente Salvatore Aversa, mentre distesa sull’asfalto c’era sua moglie Lucia Precenzano, in fin di vita. Morì dopo il trasporto in ospedale.
I due erano andati a fare visita ad una coppia di amici che abitava proprio lì e stavano per entrare in macchina per tornare a casa ma non vi fecero mai ritorno perché qualcuno li aveva colpiti, con quindici colpi di una beretta calibro 9, ponendo fine alle loro vite. “Tenuto conto della personalità e dell'impegno professionale del Sovrintendente Aversa, - si legge nelle carte del processo - le indagini si indirizzarono subito verso gli ambienti della malavita locale, e, poiché il duplice omicidio era stato consumato in pieno centro cittadino ed in orario che faceva presumere la presenza di persone che potevano avervi assistito, furono acquisite informazioni volte alla ricostruzione dei movimenti delle vittime nel periodo prossimo all'agguato e avviate le ricerche di eventuali testimoni oculari”.
La superteste Rosetta Cerminara e il processo
Tra gli altri spuntò una supertestimone, Rosetta Cerminara, 23enne lametina, che accusò quelli che furono arrestati come presunti autori materiali del duplice omicidio. Si trattava di Giuseppe Rizzardi e Renato Molinaro, (successivamente morto per una dose di droga ingerita in carcere) che furono condannati per questo omicidio nel 1994, poi assolti dalla Corte di Assise d’Appello: una prima volta, con sentenza del 12 maggio 1995, emessa dalla Prima Sezione e, definitivamente — a seguito della sentenza del 31 gennaio 1996 di annullamento con rinvio — dalla Seconda Sezione con la decisione presa il 21 maggio 2002, divenuta irrevocabile dal 13 gennaio 2004.
Assolti perché, intanto, le dichiarazioni della superteste, che era stata decorata con la medaglia al valore civile nel 1997 dall’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, si erano rivelate false. Si scoprì che la ragazza aveva testimoniato il falso per inguaiare il suo ex fidanzato e l’amico. Intanto, erano spuntati fuori alcuni pentiti che si addossarono la colpa materiale dell’omicidio e che furono incriminati nel 2004: si trattava di esponenti della Sacra Corona Unita pugliese, i due killer Stefano Speciale e Salvatore Chirico. Chi li aveva assoldati per mettersi a disposizione, il boss Antonio de Giorgi, pagò con l’ergastolo, mentre a 18 anni di reclusione fu condannato Cosimo Damiano Serra, accusato di aver partecipato all’organizzazione.
Le indagini si concentrarono, naturalmente, anche sui potenti della ‘ndrangheta lametina che, in un primo momento, furono assolti: era il 1999 e Francesco Giampà, Nino Cerra, Giovanni Torcasio, Vincenzo Torcasio, cugino di Giovanni, e Tommaso Mazza, collaboratore di giustizia, furono scagionati. Ma, nel 2009, ripreso il processo, il mandante fu condannato: il boss lametino Francesco Giampà, “u prufissuri”.
“Quando si istituì il terzo processo non sapevamo più a chi credere e quale fosse la verità – ha ricordato il figlio dei coniugi Aversa, Walter, in una intervista rilasciata alla Rai – abbiamo fatto un passo indietro perché ci sembrava tutto estremamente confuso, anche se poi i risultati sono arrivati. Se sono veri e giusti non lo so, secondo i giudici è stata quella la verità”.
Da sinistra Paolo, Giulia e Walter Aversa
La profanazione della tomba dei due coniugi
Era il 1992. Se il 1991 era stato l’annus horribilis per Lamezia, il 1992 lo fu per l’Italia. Stragi di mafia, cadute del governo, le inchieste del pool “Mani pulite” e Lamezia fece da apripista in negativo. L’omicidio di Aversa e sua moglie, però, fu segnato da un altro brutto episodio: quello del profanamento della tomba sua e di sua moglie. Sì perché, non solo l’omicidio fu efferato ma anche quello che avvenne dopo. Con un ulteriore sfregio, a due mesi dalla morte, i corpi dei coniugi, sepolti nel cimitero di Castrolibero, furono riesumati, bagnati di benzina e dati alle fiamme. Come se qualcuno avesse voluto ucciderli una seconda volta. Perché, però, arrivare a tanto? Perché assoldare due piccoli delinquenti del cosentino per compiere un gesto tanto efferato? Dietro tutto questo, probabilmente, c’è un simbolismo che va oltre. I due non avrebbero dovuto avere pace neanche dopo essere stati uccisi, l’odio non si è fermato neanche davanti a due bare in un cimitero.
Claudia Strangis
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