La mia Africa, monte S. Elia: la tenerezza di un anti-moderno

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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francesco-bevilacqua-foto-blog-nuova_5177a_37863_9c179_3f6c2_f8d7a_24db1_bba7a.jpgNotte, ore 2,11. Una sottile candela profumata. Accendo il fiammifero per scollare lo stoppino, produrre la fiamma e far colare la limpida cera nel candelabro di terracotta che è sempre sulla mia scrivania. Questa storia non vuole la luce artificiale, non vuole il pc. Un foglio di carta ed una matita per scrivere lentamente, lasciando che la tenerezza sciolga l’anima. Mi sono alzato, insonne, un’ora fa. Ho scaldato una tisana. Ho acceso pigramente la TV per favorire il sonno. Nel nulla dei vari canali, scovo le immagini amiche di “La mia Africa”, di Sydney Pollak (1985), tratto dal romanzo di Karen Blixen: un film ed un libro che mi hanno molto commosso. Maryl Streep e Robert Redford – magnifici nei rispettivi ruoli – si amano sullo sfondo di paesaggi incontaminati di un’Africa in rapida trasformazione. Denys guida Karen in un viaggio nelle savane ancora selvagge e poi le fa sorvolare, sul suo piccolo aereo, le pianure, le valli, le montagne popolate di alberi ed animali, dicendole: “voglio che tu veda tutto questo, prima che scompaia”.

Un gesto di amore estremo – Denys morirà di lì a poco in un incidente aereo – per una donna e una terra che sono per lui una cosa sola. Mi ha colpito anche quando, nel film, di fronte al tentativo di Karen di insegnare ai bambini indigeni a leggere e a scrivere in inglese, Denys la rimprovera: “chi ti dice che loro vogliano imparare un’altra lingua? Loro hanno già la loro. Perché ti ostini a farli diventare dei piccoli inglesi?” Ho lacrime trattenute nel petto e negli occhi. Ho urgenza di scrivere. Perché stamane, a causa di una caviglia dolorante, ho fatto un piccolo safari in fuoristrada in una delle mie “afriche”. Sono disceso in un una stretta valle della Sila, quella del S. Elia e poi sono salito sul monte contiguo con lo stesso nome, che lo divide dalla valle del Nero. La strada asfaltata per arrivare sino al punto di partenza era una specie di corso infestato di gente di ogni tipo che razziava funghi nei boschi circostanti. Nella mia valle, complice la strada malmessa, invece nessuno. Qui non sono ancora arrivate le motoseghe, non è arrivato il fuoco, non sono arrivati i cacciatori e i fungari, non vengono i quaad e le moto da cross. Ho con me le carte topografiche della zona da esplorare per tracciarvi itinerari a piedi: vi sono stato in passato e ne ho anche scritto sulle mie guide, ma mi manca ancora tanto da vedere. Splendidi boschi di castagni e querce abbandonati a sé stessi. Silenzio, solitudine. Da sopra una rupe grigia, sfaldata, che pare di ardesia, panorami sconfinati. Pulvini di piccoli fiori lilla si stagliano sulla roccia e contro il cielo azzurro. È una fioritura tardiva dell’estate: l’issopo di Cosentini. Nel fiume c’era una piccola comunità di tife. E qua e là biancospini con le bacche d’un rosso sgargiante. Sostiamo a stupirci dinanzi ad un luogo che forse scomparirà, come nel film. Nel pomeriggio, al ritorno, ho fatto una lunga nuotata in un mare cristallino, popolato di placide meduse simili a fantasmi pelagici. E poi ho accolto il sole e il vento sulla mia pelle. Il casuale coronamento della mia giornata memorabile è la storia d’amore e commozione per un mondo che scompare del film di Pollack. E dire che in questi giorni riflettevo proprio su questo: sul bisogno di memoria – come diceva Corrado Alvaro – dinanzi alle trasformazioni in atto. Per me quasi sempre in peggio.

Per me quasi sempre irrispettose dell’umanità e dei paesaggi, degli uomini e dei luoghi. Ecco perché mi sento profondamente anti-moderno. Ho assunto questa definizione, quando Giuseppe Merlino, in una conversazione pubblica al Parco Letterario di Torre Camigliati, l’ha usata per Norman Douglas. Si attaglia bene anche a me. Non credo nella modernità perché non credo nella bontà dell’uomo e della sua opera innovatrice, non credo nella sua voglia di commuoversi, di amare, di rispettare. Vedo i guasti irreparabili che ha compiuto in Africa, in Calabria, sull’intero Pianeta Azzurro. Penso che l’uomo sia una creatura piena di superbia che rovina tutto ciò che tocca, che ha guadagnato il “benessere” stuprando la natura, che per lui è solo materia bruta da assoggettare alla sua volontà. Ecco perché oggi, ora, nel cuore della notte, i teneri fiori di issopo, le turgide bacche di biancospino, le mazze vellutate delle tife, gli alberi secolari, il cielo, i boschi, le valli, le eteree meduse nel mare, la storia d’amore di Karen e Denys, la Terra che scompare sono il mio passato, la mia patria, la mia consolazione, eroicamente vivi, nonostante l’uomo.

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