Storia di fiumi, sassi, medici e infermieri

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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francesco_bevilacqua.jpgMi risveglio nel letto caldo e profumato di casa. Alla fine di "tutto". Di uno di quei "tutti" che costellano le nostre vite. E paiono momenti epocali, totalizzanti. Ma dei quali ci dimentichiamo presto. Dal sogno emergono brandelli di immagini. Un fiume di montagna, rapido, fluente. L'acqua scorre dentro di me, purificando il mio corpo. Che duole. Al fianco e ai visceri. Che guarisce piano dal trauma operatorio. Un sassolino che rotola nella corrente eterna, incastrandosi in un'ansa del mio uretere. Stava lì, o poco più in su, il sassolino, da più di un anno! Dacché vennero i dolori al fianco sinistro (lo stesso lato del mio incidente alla caviglia). Violenti, irresistibili. Una lancia confitta tra la schiena e il ventre. Tre volte al pronto soccorso. Certo che si trattasse di una lombalgia. Il dolore mi aggrediva spesso la notte, dopo i miei cammini domenicali. Avevo indagato anche in direzione dei reni. Ma niente! A distanza di più di un anno, il sassolino, dopo una lenta, lunga discesa nel letto del fiume, decide di fermarsi e di palesarsi. Riprende improvvisamente a mandare segnali, nel suo stile enigmatico e tremendo. Anela alla foce. Mi ritrovo così in una stanza del reparto di urologia dell'Ospedale di Lamezia. Un'oasi di buona sanità, professionalità, competenza, prudenza, scrupolo, educazione, umanità, di cui tutti i malati parlano da anni ma che le istituzioni ignorano. O fingono di ignorare. Dunque sono lì, in una camera a quattro, improvvisamente messo a confronto con un'esperienza di prigionia volontaria (e necessaria) e di dipendenza totale da medici e paramedici. Ho portato con me tre libri: "Avere fiducia" di Michela Marzano, "Il sacro e il profano" di Mircea Eliade, e "La Grotta di Cristallo" di Mary Stewart, uno dei romanzi che rileggo nei periodi ostici della vita.

Emergono dal sonno altre immagini: un vecchia senza volto che, notte e giorno, grida con voce roca, instancabile, un nome caro: "Rosanna"; un anziano in carrozzina, magrissimo e senza gambe, la testa reclinata sul petto, che qualcuno sospinge avanti e indietro lungo il corridoio; un ragazzo segaligno, lo sguardo affranto, che, gravemente, si riabilita a camminare, abbracciato a una sorella; un professore dal viso intenso che urina una sostanza color melenzana; un uomo in preda a continue coliche, giunto sin qui alla guida del suo autobus di linea, dopo otto ore di viaggio col dolore; un contadino e pastore con strani occhi verdi, che dignitosamente affronta la sofferenza, così come dignitosamente ha ricostruito, con l'aiuto della sua bella famiglia, una piccola, moderna azienda che produce olio, olive, pecorini, ricotte.
Ancora immagini: i medici in visita nelle camere al mattino, bene amalgamati, rispettosi l'un l'altro; il primario, dott. Carmelo Zoccali, che accudisce tutti i pazienti, indistintamente, dà ordini autorevoli (non autoritari), ci mostra come un lavoro può essere una missione; gli infermieri dei vari turni, tutti accudenti, pronti, rassicuranti, prodighi di piccoli consigli; i compagni di stanza, avvolgenti, generosi.

E poi i flash back dell'intervento in uretroscopia, attraverso l'unico orifizio del mio corpo non ancora violato da un medico: l'abbandono totale ai sanitari, come un bimbo appena nato; il percorso a testa in su tra i meandri dell'ospedale; la sala di preparazione; la sala operatoria; l'anestesia spinale che pian piano ti ottunde le gambe; il bracciale che misura la pressione, incessantemente; i liquidi che scorrono in vena; il primario chirurgo dinanzi a me, inguainato in un grembiule di piombo, come un samurai, le braccia incrociate verso l'alto, lo sguardo grave, concentrato; il bip di qualche strumento; i monitor nei quali si vede l'uretroscopio salire nelle mie vie urinarie; il ritorno in camera; il non sentire le gambe per ore; il realizzare che hai due tubicini infilati nell'uretra; le sacche di riempimento dei liquidi; il via vai di parenti e amici; il mio atteggiamento di totale resa, di fiducia, di accettazione.
Rifletto. Perché qui, finalmente, le responsabilità si azzerano, e si ha il tempo di riflettere davvero! Un'esperienza così è fondamentale nella vita. Ti porta faccia a faccia con quel dolore, quel disagio, quella possibilità di morte che quotidianamente escludiamo dalle nostre convenzioni sociali, vitaliste, eccitate, consacrate ad immagini edulcorate ed ipocrite di noi stessi e della realtà. E che invece permeavano di sé le antiche civiltà contadine e pastorali del Sud e di qualunque angolo della Terra. Rivado con la mente al mio aureo fatalismo: accada ciò che deve accadere. Perché nulla accade per caso. E quel che accade ha sempre un significato psichico per ciascuno di noi. Il sassolino si è sbriciolato. Il fiume ne trascina i pezzi sino al mare. Scorre l'acqua, come un lavacro purificatorio.

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