Tropea (Vibo Valentia) - La quinta giornata del Tropea Film Festival con ospiti di prestigio come i due pilastri della produzione cinematografica italiana degli ultimi cinquant’anni: il maestro Pupi Avati e la produttrice Alessandra Infascelli. La programmazione ha preso il via con la formazione dei giovani aspiranti attori che hanno partecipato alla lezione “Let’s use our immagination” tenuta da Francesco De Vito interprete di Pietro Apostolo nella Passione di Cristo di Mel Gibson. A seguire a Palazzo Santa Chiara la proiezione di tre corti fuori concorso prodotti dalla Mediano Film. Prima di domani della regista Giulia Zanfino con gli attori Walter Cordopatri, Mariadea Galiano, Stefania De Cola; Giuseppe Letizia – La mafia non uccide i bambini della regista Giulia Zanfino con gli attori Annalisa Insardà, Rino Rodio, Gennaro Bertucci, Luigi Cantoro e Salvatore Bonavita, Ci vediamo di là scritto da Valentina Gemelli e diretto da Giulia Zanfino e Mauro Nigro con l’interpretazione di Valentina Gemelli e Francesco Rizzi.
Sezione corti
Dei sei cortometraggi in gara, quello decretato vincitore della prima edizione del Tropea Film Festival è stato The Delay di Mattia Napoli. Ad assegnare il premio è stata la giuria presieduta da Salvatore Romano (regista) e composta da Annalisa Insardà (attrice), Giulia Zanfino (regista), Walter Cordopatri (attore) e Roberto Giordano (musicista), che si è espressa con questa motivazione: “Idea originale, che si distingue per la sua struttura e per la sua messa in scena, sempre dentro al tema. Ottima regia che ben fotografa il soggetto dell’opera e ne dilata i tempi in modo appropriato. Un’estrema considerazione del tempo che passa, che ritorna e si perde, nel marasma di oggi in cui nessuno veramente sembra sentirsi in orario.”
Nel corso della premiazione in maniera del tutto inattesa l’iniziativa della produttrice Alessandra Infascelli che ha pubblicamente assunto l’impegno di visionare i lavori di tutti i giovani artisti che hanno partecipato alla gara: «È questo il sostegno che possiamo dare ai giovani. Prestare attenzione ai loro prodotti e dissuadere chi non dimostra di avere un talento autentico in questo settore».
L’intervento di Pupi Avati
Ferrara, anni Settanta. Pupi Avati è impegnato a girare Thomas e gli indemoniati. Il set è una chiesa sconsacrata. L’attesa per l’avvenente attrice selezionata ai casting di Milano è grande, ma si presenta una ragazza molto diversa. Non era alta, non era bionda, né particolarmente attraente. Il maestro, deluso, le chiede di accomodarsi fuori. Lei esce dalla chiesa e si siede su un muretto. Resterà lì fino a sera quando, alla chiusura del set, il regista se la ritroverà davanti. Quella caparbia aspirante attrice era Mariangela Melato ed è stato così che il maestro impressionato dalla sua determinazione, le ha dato una chance: dal canto suo la donna è riuscita ad incantare l’intera troupe alla prima interpretazione. Ecco che le storie del grande cinema italiano hanno costellato la quinta giornata del Tropea Film Festival, cofinanziato dalla Calabria Film Commission, con conversazioni e testimonianze che hanno oltrepassato le transenne, fino ad entrare nell’intimo degli ospiti. Il maestro Pupi Avati, la produttrice di Febbre da cavallo Alessandra Infascelli, Luca Manfredi, figlio del celebre attore, si sono raccontati e hanno raccontato il cinema di ieri e di oggi. Il primo protagonista è stato Avati autore di grande respiro che, dal ’68 ad oggi ha girato oltre quaranta film. «Il cinema è lo specchio di quello che siamo, di quello che siamo stati e di quello che potremo essere. Ci osserva, ci racconta, ci critica come solo un maestro sa fare». Sul momento critico del settore: «Il cinema riflette in modo puntuale il paese” spiega. “Raccoglie quello che suggestiona ed esalta. Un mondo in cui la meritocrazia è diventata l’ultimo elemento per valutare una persona. Questa società produce privilegi, tanto che quando si apre la finestra su un’ipotesi di opportunità si pensa ad un amico». Avati entra nel vivo di una delle piaghe che ha danneggiato e danneggia tutt’ora l’arte cinematografica. «Il mediocre vuole persone da controllare. C’è questa catena di incompetenza che ho constatato nell’arco di sessant’anni di cinema. Ho incontrato persone inadeguate al ruolo che avevano, che definisco ruffiani». Quanto alla tensione sentimentale che lo ha spinto a raccontare la nostra società per decenni, Avati spiega il suo legame con l’humanitas di Roberto Rossellini.
«Il tentativo di condividere emozioni, questa è la parte autentica. Io mi emoziono di fronte a una scoperta e con spirito rosselliniano avverto di volerla condividere con gli altri e lo faccio con il cinema e la scrittura. La missione di Rossellini è stata condividere una gioia, un’emozione. Un percorso che ho intrapreso molto tardi, perché ho vissuto i primi decenni della mia vita impegnato in un progetto musicale. Il giorno che ho lasciato la musica, quando ho scoperto che non disponevo del talento per fare il musicista, è stato doloroso. Una sera ho convocato alla fine di una prova i miei amici con cui condividevo quell’avventura per comunicare che smettevo di suonare, nessuno di loro ha detto di no. Nessuno ha insistito a farmi cambiare idea». A proposito di talento, dopo l’amara riflessione il regista spiega il suo metodo. “Per capire se i giovani hanno talento devi metterli alla prova. Dandogli in mano un testo, facendoli cimentare in un monologo. Ognuno dispone di un talento. Ma quando replicano: tanto io ho un piano B, trovo una risposta scadente. Una volta non avevamo paura. Più i sogni sono grandi e improbabili e più è possibile che si avverino. Io vendevo il pesce surgelato, ero distante anni luce dal cinema. Come potevo immaginare che avrei fatto 54 film? La fortuna non ha ruolo in questa vicenda”. Il maestro fa un accurato distinguo nella sua categoria spiegando che, a suo parere, ci sono due tipi di registi: «Quelli che producono per essere riconosciuti e quelli, come me, che invece lo fanno perché sentono l’esigenza di raccontare un’esperienza vissuta. Appartengo alla cultura contadina che racconta sempre» ci dice. E aggiunge: «Se racconto sto generando vita, sono come una donna incinta che ha un cuore che batte dentro al ventre. La storia è vita. Produce un’infinità di coinvolgimento di persone». Avati si sofferma in una goliardica performace in cui tratteggia una conversazione avuta con Edwige Fenech. La proposta di farle interpretare un suo film, al telefono, la commuove al punto che scoppia in lacrime. «Scopri come dare gioia sia più bello di ricevere gioia». Il regista racconta la parabola che lo ha portato a varcare la soglia di Cinecittà, divenendo uno dei riferimenti italiani più noti e talentuosi. «Nel ’68 vendevo pesce surgelato” ricorda. “8½ di Fellini mi ha cambiato la vita. Come è accaduto a tante altre persone. Questo fa capire le potenzialità del cinema. All’epoca sono corso dai miei amici al Bar Margherita e ho proposto di provare a fare un film. Iniziò un’avventura con il coinvolgimento di un finanziatore a cui hanno fatto “perdere” 170 milioni per la produzione del primo film, che Avati ebbe il coraggio di definire come una prova per ottenere altri 110 milioni per il secondo, Thomas e gli indemoniati. Neanche questo fu un successo».
Il premio
Pupi Avati, dal Tropea Film Festival, ha ricevuto il Premio alla Carriera, realizzato dal maestro orafo Michele Affidato, e consegnato a Palazzo Santa Chiara dal Commissario di Calabria Film Commission, Anton Giulio Grande. L’impegno è quello di sdoganare la narrazione di queste terre da preconcetti e luoghi comuni. A mettere il sigillo alla serata presentata da Linda Suriano e Andrea Santonastaso, è stato il concerto della pianista Gilda Buttà e il violoncellista Luca Pincini sulle musiche di Ennio Morricone.
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