Una strana collina in pianura
Il primo giro lo effettuiamo prendendo una delle tante stradine abbandonate nell’area industriale, accessi che chiunque può varcare proprio per l’incuria in cui versano. Uno dei segreti dell’area industriale è custodito vicino al Turrina, più precisamente collocato fra il depuratore, da una parte, e una distesa di pannelli solari, finanziati con fondi pubblici, dall’altra. Ed è lì che ci si para innanzi gli occhi la prima sorpresa: una collina nella distesa sconfinata dell’Ex Sir, proprio a fianco del depuratore da cui proviene il caratteristico tanfo. Ai piedi della collina ci accorgiamo che passano i tubi del metanodotto (con tanto di cartello di pericolo) mentre ad una delle estremità della piccola montagna svetta uno dei pali della videosorveglianza. A pochi metri di distanza, separato solo da un lembo di strada semi abbandonata, ecco il Turrina, l’enorme canale che sfocia verso il mare.
La storia del veleno “segreto”
Ci dicono che quella collina non è, o almeno non dovrebbe essere, una vera e propria discarica ma un semplice deposito temporaneo. Di cosa? Di un particolare materiale. Si tratta della fibra di vetro che veniva prodotta oltre vent’anni fa nello stabilimento della Five-Sud che era della Sir di Rovelli, ma gestita dal gruppo Ruoppolo. Successivamente, nel 1989, l’impianto fu ceduto alla Montecatini (Gruppo Montedison). Nel 1991 arrivarono così nell’area industriale Texmet, Lamespun e Lamezia Speciality Film. In quegli anni lo stesso stabilimento fu ristrutturato e riconvertito nella produzione con finanziamenti pubblici della legge 488/92. Tra il 1990 e il 1991 la Montedison si trovò, dunque, nella condizione di dover smaltire la fibra di vetro rimasta nell’impianto e affrontare uno sviluppo produttivo diverso. Ma la società non poteva smaltire rifiuti industriali in un’area di proprietà del Consorzio senza avere l’assenso del proprietario. Quello che oggi si chiama AsiCat era all’epoca il Nucleo di Industrializzazione della Piana di S. Eufemia presieduto dall’avvocato Magnavita che rivestì la carica di presidente per oltre un ventennio, ossia dalla sua istituzione, nel 1967, fino al 1993 quando, nel corso dell’ottava legislatura, fu sostituito dall’avvocato Pier Camillo Senese. Tra il 1995 ed il 1997 una società del gruppo che produceva fibre metallizzate, la Texmet, fu dismessa ed i lavoratori riassorbiti nella Lamezia Speciality Film (ex gruppo Treofan). Dei rifiuti prodotti dall’allora Texmet nessuno parla. Che fine abbiano fatto, una volta dimessa la produzione, non è dato sapere. Quella che sembra certa, invece, è la fine toccata in sorte alle fibre di vetro dell’azienda Five-Sud prodotte nello stesso stabilimento (ora ex Treofan). L’idea originaria, come ci raccontano testimoni attendibili, non era quella di creare una discarica permanente ma piuttosto una sorta di “deposito temporaneo” dove ammassare le tonnellate di fibra di vetro prodotte dallo stabilimento. Un sito provvisorio, dunque, in vista della distruzione da parte di quell’inceneritore che, ironia della sorte, spicca con il suo alto comignolo al di là della “collina” formata dalla fibra di vetro della Five-Sud.
Lo smaltimento della fibra di vetro
La fibra di vetro viene essiccata e così viene resa innocua, se non viene contaminata dall’acqua. L’unico modo per distruggere la fibra è la termo combustione. Nel caso che stiamo esaminando, ciò non avvenne perché l’inceneritore non entrò in funzione e la discarica-deposito, da temporanea, divenne definitiva. Furono adottate precauzioni per questo “deposito”? Si coprì tutto con un semplice telo e sopra fu rovesciato uno strato di terra. L’efficacia di questa protezione non è evidentemente molto grande. Intanto, in alcuni punti si vede molto bene il telo. Poi, nel corso degli anni la natura si è presa la sua rivincita. Oggi la collina della fibra di vetro è coperta dalla vegetazione. Può essere successo di tutto, compreso il fatto che l’usura del tempo e le radici degli alberi abbiano bucato il telo sottostante, lasciando così filtrare l’acqua piovana. E, in effetti, poco più in là ne abbiamo la conferma. Continuando nella nostra ricognizione possiamo scorgere, a breve distanza, un vero e proprio foro nel telo che ricopre la montagnola. Il telo è vecchio, logoro, ed affiora in più parti dove la vegetazione si dirada. Si, è proprio lui; è il telone al quale era stata improvvisamente affidata la protezione della fibra di vetro da possibili infiltrazioni d’acqua per non fare uscire il percolato e inquinare il terreno e le falde acquifere sottostanti. Si sa, gli anni passano per tutti e per ogni cosa, qui ne sono passati almeno una ventina. Si resta comunque increduli di fronte al fatto che si possa creare una collina artificiale con rifiuti industriali vicino al depuratore (costruito in quelli stessi anni) oltre che vicino al fiume Turrina che sfocia, a poche centinaia di metri, nel nostro mare.
Quella fanghiglia verdastra
Ma le sorprese non finiscono qui. Ben presto, proseguendo nella nostra esplorazione, incontriamo quella che sembra essere la conferma delle avvenute infiltrazioni. Proprio alla base della collinetta, vicino al palo della videosorveglianza, ci si presenta davanti agli occhi una specie di fanghiglia, frutto della pioggia che ha caratterizzato le ore precedenti la nostra visita. La sostanza appare a tratti di colore verdastro. Ci spiegano che la fibra di vetro all’epoca, per essere lavorata, aveva bisogno di un particolare olio di questo colore. Percolato? Non possiamo affermarlo e siamo in attesa di risposte che speriamo vengano presto. La fitta vegetazione che si è sviluppata alla base della collina ci impedisce di continuare l’esplorazione, alla ricerca di altre eventuali chiazze di fanghiglia verdastra. Sappiamo bene che le fibre di vetro sono un materiale speciale considerato “non pericoloso” e che esse possono essere smaltite in discarica, secondo la normativa vigente, ma “solo se prive di leganti organici”. Ma l’olio che ci dicono fosse necessario alla lavorazione delle fibre è proprio una sostanza organica.
I pericoli per la salute
Anche se non cancerogena come l’amianto, la fibra di vetro può comportare irritazioni cutanee, nella più felice delle ipotesi, e l’asbestosi nei casi più gravi. Le irritazioni cutanee sono provocate dal contatto fisico mentre l’inalazione di particelle eventualmente diffuse nell’atmosfera circostante può provocare l’asbestosi che, semplificando, può essere definita un’infiammazione polmonare che degenera in fibrosi e poi ancora in enfisema fino, anche, al tumore polmonare o pleurico. Le particelle volatili delle fibre di vetro, infatti, possono depositarsi nei polmoni e lì sedimentarsi perché il corpo umano non riesce a rigenerarle. Insomma, protetti da un semplice telone logoro vicino a un fiume e al mare, non c’è da stare allegri.
I diversi interrogativi
A questo punto della nostra escursione fra i rifiuti, viene spontaneo porsi e porre alcune domande. Cosa ci fa una discarica vicino a un depuratore, vicino a un fiume che poco più in là sfocia nel mare e su un suolo di proprietà del Nucleo Industriale? Chi ha autorizzato, se qualcuno lo ha fatto, quello che potrebbe dimostrarsi un vero e proprio reato ambientale? Ci saranno delle indagini? Noi ci auguriamo di sì e che siano rapide. Per la tranquillità dei cittadini di Lamezia e del comprensorio che si tuffano in quel mare e che nell’area industriale hanno cullato l’idea di uno sviluppo possibile, non di una pattumiera di rifiuti industriali mimetizzati in collinette artificiali.
La seconda collina dei segreti
Ma l’escursione continua e non finiscono le sorprese. Troviamo così un’altra strana “collina” che è possibile scorgere poco prima di addentrarsi nella pineta che va verso il pontile ed affaccia in uno slargo. Questa volta, si tratterebbe di un cumulo di fanghi della depurazione. Vista dalle mappe satellitari, comunque, questa seconda collina è molto più grande ed estesa di quella dove sarebbero depositati i rifiuti in fibra di vetro. Anche qui, stessa tecnica: una montagnola coperta da terriccio e vegetazione, ma più vicina al mare e alla pineta rispetto alla prima. Due facce, forse, della stessa medaglia. Entrambe custodite negli anni nella noncuranza di chi sapeva, ha avallato, oppure ha preferito far finta di niente disinteressandosene. Perché qualcun altro, oltre a chi ci ha suggerito la nostra escursione fra i rifiuti, sicuramente deve sapere.
Area industriale come discarica
Un fatto è certo: il nuovo Consorzio, se l’ha richiesto, non potrà più fregiarsi della denominazione di area industriale ecologicamente attrezzata, così come previsto nell’articolo 21 della legge regionale numero 38 del 2001 che istituisce le Asi. In quell’articolo, infatti, si afferma nel primo comma che le Asi possano dotarsi della denominazione di “area industriale ecologicamente attrezzata” solo se esistano “delle strutture e degli impianti idonei ad assicurare la tutela dell’ambiente, della salute e della sicurezza, oltre ad adeguati impianti e sistemi di monitoraggio ambientale dei livelli atmosferici, acustici ed elettromagnetici”. Nel secondo comma si legge: “I Consorzi che si sono dotati dell’attrezzatura di tutela ambientale, della salute e della sicurezza richiedono alla Provincia di dichiararne la qualificazione come area ecologicamente attrezzata. Il Presidente della Provincia previa opportuna verifica, provvede con proprio atto al relativo riconoscimento”. Un semplice riconoscimento e nulla più? No, perché chi può fregiarsi di tale denominazione gode anche di finanziamenti così come esplicitato nello stesso articolo 21, al comma 3: “Le aree di cui al precedente comma 1 fruiranno prioritariamente degli aiuti finanziari pubblici nazionali, regionali e comunitari”.
Un auspicio per il futuro
Ci auguriamo che l’Asi non abbia, negli anni passati, inoltrato tale richiesta anche perché sarebbe il colmo che il Consorzio provinciale per la promozione e lo sviluppo delle imprese che sorge a Lamezia, a capitale interamente pubblico, avesse ricevuto negli anni, grazie al comma 21 della legge regionale 38/2001, finanziamenti pubblici “nazionali, regionali e comunitari” senza sapere che al suo interno, su suoli di sua proprietà, vicino a un fiume e al mare, sorgevano due “colline”, quantomeno “sospette” e non abbia mai pensato di informare l’autorità giudiziaria competente in materia per avviare le operazioni di scavo e d’analisi e dissolvere così ogni dubbio sull’origine e il contenuto di sospette “colline”. Tanti interrogativi, quindi, alla fine del racconto. L’augurio è che qualcosa si muova, anche sulla scia di questo articolo.
tratto da Il Lametino n. 147
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