Oreste Bazzichi: “Il ruolo delle Pontificie Università”

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Lamezia Terme - Lo scopo dell’economia politica è quello di servire lo sviluppo degli esseri umani, e gli esseri umani non sono solo animali politici (Aristotele) o solo animali economici (Marx), ma sono anche animali spirituali, morali, figli di Dio.

Per creare democrazia e per realizzare sviluppo, occorre grande senso sociale e grande spirito umano in tutti i cittadini. Democrazia e sviluppo non sono solo compiti sociali, politici ed economici, ma anche etici e teologici. In questo senso resta inconcepibile si possa produrre sviluppo socio-economico e culturale senza fondamento etico. Ma per raggiungere questo obiettivo, almeno per quanto riguarda la società italiana, occorrerebbe  ripristinare nelle Università statali, forse difficile oggi, la Facoltà di teologia e certamente nelle Università pontificie lo studio socio-economico, riappropriandosi della gloriosa tradizione Scolastica.

Con l’entrata in vigore della legge 25 gennaio 1873, n. 251 – a seguito della cosiddetta “questione romana” e vaticana, iniziata con la proclamazione del Regno d’Italia e soprattutto della caduta del potere temporale del Papa (20 settembre 1870 - l’insegnamento teologico scomparve dalle Università di Stato e, per una forma di adattamento, favorito dalla particolare mentalità laica prevalente, non vi è più rientrato, neanche dopo la celebrazione del Concilio Vaticano II con le sue larghe aperture e con il carattere nuovo impresso a tutto l’insegnamento della dottrina cristiana e, in primo luogo, allo studio critico dei testi (cfr. Gaudium et spes, n. 5; Lumen gentium, n. 6).

Ecco perché il beato Giuseppe Toniolo (1845 – 1918) per tutta la vita si batté per creare un’alternativa formativa culturale, per laici ed ecclesiastici: l’Università Cattolica.

Paradossalmente oggi l’Italia è uno dei pochissimi Paesi del mondo nel cui sistema universitario non trovano posto le Facoltà di teologia, laddove invece fioriscono numerose in Europa e nelle altre parti del globo. Naturalmente la soppressione dell’insegnamento teologico nelle Università italiane ha contribuito ad abbassare il livello formativo e culturale del nostro Paese nei confronti della grande cultura europea, di cui rappresentiamo il centro. Del resto, nessuno mette in dubbio che gran parte della civiltà occidentale, della storia, della letteratura e dell’arte è incomprensibile se si ignora il contributo della teologia. Tanti economisti, anche “Premi Nobel”, riconoscono che la scienza economica è incompetente a formulare giudizi “oggettivi”, i quali sono indispensabili nelle decisioni di politica economica. Dall’altra parte, c’è da rilevare l’incomprensione e l’approccio generico e astratto ai problemi socio-economici del mondo ecclesiastico e cattolico in genere. Questo è un fatto importante da rilevare se vogliamo costruire un modello credibile, condiviso e stabile di economia di pace. Perché – dobbiamo riconoscerlo – il mondo ecclesiastico, in generale, ad iniziare dalla formazione dei futuri sacerdoti, ha scarsa comprensione dell’economia: da qui derivano incomprensioni “a cascata” sugli altri più specifici temi ricompresi in quello più generale dell’economia.

Da più parti si osserva che il Papa, i Vescovi, i teologi ed i preti non sono tenuti a conoscere l’economia e neanche a intervenire nei giudizi di merito nelle questioni politiche e sociali, perché non è loro compito fare proposte. Ora questa concezione – soprattutto in questo momento della nostra storia e del nostro presente, aggravato da una difficile e lunga crisi economico-finanziaria, che ha messo in crisi il modello di sviluppo occidentale (Caritas in Veritate, Evangelii Gaudium) non è fuori luogo andare alla ricerca di risposte dal passato. Ed è proprio da lì che scaturiscono proposte e suggerimenti. Ed è da lì che ritroviamo la Chiesa-società in prima linea, che, attingendo al proprio ricco patrimonio del depositum fidei, “esperta in umanità” e in possesso del metodo  dei “segni dei tempi” indica la strada della sintesi tra concorrenza e condivisione, tra competizione e solidarietà, tra for profit/no profit, tra efficienza e gratuità (economia del dono), tra capitale produttivo e occupazione. Questi principi sono incarnati nella nostra storia e servono non per promuovere un ritorno nostalgico al passato, rinunciando alle conquiste socio-economiche-tecnologiche degli ultimi secoli, ma un orientamento per guardare all’avvenire, tenendo presenti i valori antropologici che provengono dal connubio tra etica ed economia, patrimonio del nostro passato e che si trovano in sintonia con le aspirazioni dell’uomo contemporaneo: un’economia di pace.

La società contemporanea non ha idea di che cosa sia la giustizia,giustizia sociale, vero fondamento della pace. Conosce solo la giustizia commutativa e crede che l’unica soluzione per aiutare i poveri possa risolversi negli atti di carità. Vi è invece un’enorme differenza tra carità e giustizia; molti problemi delle società industrializzate o avanzate o postmoderne non saranno risolti dalla carità, ma soltanto da una maggiore consapevolezza della giustizia distributiva, che non significa Stato assistenziale (ricordiamo Don Luigi Sturzo)

E’ vero che la dottrina sociale cristiana non pretende di offrire risposte dirette e concrete ai complessi problemi dell’attività economica e sociale e che quindi si rende necessaria una mediazione tra il modo in cui essa deve essere interpretata e quello con cui deve essere tradotta in norme etiche valide oggi e sempre.

Ma come è possibile questo innesto tra etica ed economia e, per estensione, su tutto ciò che dà significato umano all’attività dell’uomo anche nella gestione delle cose politiche ed economiche, se  non c’è più uno spazio comune di confronto di idee e di linguaggio che era costituito dalle Facoltà teologiche nelle Università statali e dallo studio delle problematiche sociali nelle Pontificie Università? Forse anche questa considerazione viene a far parte dell’ “utopia” dell’economia di pace.

  

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