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Intervista al lametino Vincenzo De Blasi, psicoterapeuta e professore all’Università “Tor Vergata” di Roma
Scritto da Redazione Pubblicato in Maria Arcieri© RIPRODUZIONE RISERVATA
di MARIA ARCIERI
Adotta il metodo freudiano, è affascinante, professionale, ritiene da esperto del settore che ” in molte realtà umane e sociali manchi una sana “cultura psicologica”. In un epoca di depressione, abbiamo intervistato, per conoscere meglio il problema, Vincenzo De Blasi, 36 anni, psicologo clinico, psicoterapeuta, professore a contratto all’Università “Tor Vergata” di Roma. Laureato alla“Sapienza” (Università di Roma) con specializzazione in Psicologia Clinica e Psicoterapia Psicoanalitica.
Perché ha scelto di esercitare questa professione?
“L’interesse per la psicologia è coinciso con quello verso il pensiero di Sigmund Freud, all’età di 16 anni, dopo aver letto “L’Interpretazione dei sogni”. Più tardi, nella scelta universitaria, la passione culturale e quella lavorativa si sono poi incontrate con precise inclinazioni personali. Credo che, in generale e laddove ci sia la possibilità di perseguire i propri interessi culturali, ciò accada per ogni specifica scelta professionale”.
Dove esercita?
“Roma, Lamezia Terme”.
Quali sono i problemi che maggiormente soffrono i suoi pazienti?
“Disturbi d’ansia e Disturbi da dipendenza (addiction disorders)”.
Di ansia e attacchi di panico sono aumentati i casi negli ultimi anni?
“Ci tengo a premettere che nell’ambito della psicopatologia ogni “questione epidemiologica” e “statistica” risulta essere complessa e sia naturalmente influenzata da almeno due fattori: il primo è riferibile alle differenti metodologie diagnostiche che spesso portano a conclusioni diverse; il secondo ha una spiegazione, per così dire, “ambientale”, in quanto, spesso, sopratutto in determinate situazioni territoriali e culturali, il disagio psichico è tenuto nascosto, per paura di essere giudicati, rigide convenzioni culturali, ignoranza della malattia. Per questi motivi, è difficile fare riferimento a “numeri” certi, relativi all’incremento o al decremento statistico di alcune sindromi psichiatriche e psicopatologiche. Sebbene oggi non si parli più di alcune malattie, come l’isteria “classica”, è pur vero che se ne sono aggiunte di nuove, sconosciute fino a venti anni fa, come gli addiction disorders, ossia le dipendenze compulsive da gioco d’azzardo, internet, droghe, alcool, sesso. Come anticipato, i dati “reali”, però, non sempre coincidono con i dati “clinici”. Personalmente, nella mia esperienza clinica, non ho riscontrato un significativo incremento o decremento del quadro sintomatologico meglio conosciuto come “attacchi di panico”.Vorrei tuttavia precisare che, più che di “attacchi di panico”, preferisco parlare di “disturbo d’ansia generalizzato con attacchi di panico”. Questa definizione consente di indicare meglio un quadro diagnostico più complesso, in cui gli “attacchi di panico” (che, escludendo una causa organica, si manifestano con sintomi come: palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia; sudorazione; tremori; dispnea o sensazioni di soffocamento; nausea o disturbi addominali; derealizzazione ossia sensazione di irrealtà o depersonalizzazione ossia sentimento di “essere distaccati da se stessi”; paura di perdere il controllo) diventano l’espressione sintomatologia di un disturbo con radici ben più complesse”.
Quali sono i pro i contro di questa meravigliosa professione?
“Credo che nel lavoro clinico i “pro” e i “contro” si bilancino, al pari di altre categorie professionali che operano nel campo della salute. Se devo dare una risposta, direi che i “pro” hanno a che fare con una attività lavorativa che, se svolta con passione, risulta sicuramente “creativa”; i “contro”, spesso, emergono quando ci si imbatte in ambienti istituzionali (scuole, ospedali) in cui c’è una totale “sordità” per l’importanza della prevenzione psicologica verso categorie di popolazione più “a rischio” di altre. Il rischio di burn-out poi, per quanto ho avuto modo di vedere in alcuni casi, è maggiore quando il terapeuta si chiude nel suo studio o nel suo consultorio pubblico e tende a vivere solo ed esclusivamente per i suoi pazienti.
Una delle potenzialità “positive” del lavoro nell’ambito della psicologia clinica e della psicoterapia è quello di poter diversificare i propri interessi”.
Ci si può innamorare di una paziente o è l’unico medico per il Giuramento di Ippocrate che non può, diciamo perdere la testa per la paziente e il contrario?
“E’ inutile nascondere che questo è sicuramente uno degli argomenti che più di altri suscita le “curiosità” dell’immaginario collettivo verso la professione dello psicoterapeuta e la relazione psicoterapeutica. Ne sono un esempio alcune “rappresentazioni sociali” emerse nelle produzioni cinematografiche, con film come “Prendimi l’anima” o il più recente “A Dangerous Method”.La questione è indubbiamente delicata e meriterebbe ben altri approfondimenti.
Nel 2011 ho avuto il privilegio di curare un libro sul tema (Setting: violazioni e trasgressioni, Alpes, Roma), a cui ha partecipato Glen Gabbard, uno dei più illustri psichiatri del panorama scientifico contemporaneo. Effettivamente, il professor Gabbard, riportando statistiche “inquietanti”, sollecita gli ambiti istituzionali preposti al controllo della professione psicoterapeutica a “tenere alta la guardia”, a considerare cioè il fatto che le violazioni e le trasgressioni operate dal terapeuta in psicoterapia stanno diventando molto significative.
Se ci si innamora di una paziente c’è qualcosa in terapia che non và e il trattamento, che evidentemente non funziona più sulla base di un obiettivo di cura, dovrebbe essere sospeso, o, come minimo, sottoposto a supervisione da parte di un collega più esperto. A meno che non abbia una formazione medica, lo psicoterapeuta non deve rispondere al Giuramento di Ippocrate ma ad un preciso Codice Deontologico che chiaramente impone il totale rispetto verso il paziente.
Credo che il problema, laddove si manifesti una trasgressione di tal tipo, si possa ricondurre ad una chiara violazione dell’etica che dovrebbe guidare la professione psicoterapeutica e, in modo complementare, ad evidenti problemi “interni” al terapeuta, come l’incapacità di gestire le emozioni suscitate ed evocate dalla/dal paziente o conflitti appartenenti alla propria storia – attuale o passata - relazionale. Nell’eventualità di passaggio all’atto sessuale, poi, come detto precedentemente, il problema diventa, oltre che psicologico, anche deontologico, con le relative conseguenze. Per lo psicoterapeuta alle prese con casi emotivamente “difficili” è necessaria quindi una costante supervisione, che consenta di elaborare eventuali fantasie di “trasgressione” della relazione clinica e recuperare la necessaria “neutralità”. Per quando riguarda i possibili “innamoramenti” delle/dei pazienti nei confronti dei terapeuti, questi stati emotivi spesso vengono vissuti in modo “confusivo” rispetto a sentimenti di “idealizzazioni” – di cui la fenomenologia amorosa in generale è ricca – o rispetto al “transfert” – da intendersi come proiezione sul terapeuta di sentimenti regressi verso altre persone significative della propria infanzia o della propria storia relazionale. In questi casi, è necessario che il terapeuta dia senso a tali sentimenti attraverso la tecnica dell’interpretazione e “restituire” al paziente l’emozione “reale” ad essi sottostante”.
Ci sono categorie che hanno maggiormente bisogno del suo supporto o ormai siamo tutti “probabili” pazienti?
“In psicoanalisi si racconta la famosa massima freudiana: “Se incontrate una persona che dice di essere normale, portatela da me e proverò a curarla”. A parte la curiosa citazione, non credo che tutti siano “probabili” pazienti nel senso psicopatologico del termine e non credo che serva a molto psicoanalizzare l’intera popolazione. Ritengo piuttosto che in molte realtà umane e sociali manchi una sana “cultura psicologica” che, per esempio, potrebbe svolgere un’altrettanto “sana” funzione preventiva e, magari, fare risparmiare al Sistema Sanitario Nazionale molte risorse, sopratutto economiche. Si tratterebbe, cioè, di investire in termini “preventivi” e/o “psicoeducativi”, magari istituendo “laboratori per la prevenzione del disagio psicosociale” o Consultori Familiari, su alcune fasce di popolazione a rischio, come per esempio i bambini o i ragazzi in età scolare o, mi viene in mente, per le donne che, in tantissimi casi, soffrono di depressione post-partum”.
Cosa manca nella società di oggi, secondo lei, visto l’uso sempre più dilagante di ansiolitici e antidepressivi?
“Anche questo si presenta come un tema particolarmente “delicato”, che meriterebbe un ampio spazio di discussione. Effettivamente è inquietante l’uso e l’abuso di psicofarmaci nella società contemporanea. Non posso sostenere, per così dire, che “Freud sia meglio del Prozac”, ma sono sicuro che troppo spesso lo psicofarmaco diventa la “soluzione” più comoda per tutti: per il paziente che ha un immediato miglioramento dei sintomi, per lo psichiatra che non deve intraprendere un lungo e difficile percorso psicoterapeutico con il paziente, e per la famiglia del paziente che si sente, in un certo senso, “rassicurata” o “sollevata” da molti oneri di accudimento. Questo stato di cose ha fatto si che negli armadietti dei medicinali di ogni famiglia sia presente con molta probabilità un flacone di ansiolitico, quasi come se si trattasse di “aspirina”, da prendere “fai-da-te”, per dormire o quando magari ci si sente un po’ stressati. Personalmente, credo che in alcuni casi, dopo un’attenta diagnosi clinica, lo psicofarmaco sia necessario per la stabilizzazione dei sintomi; tuttavia, se non si dà “significato” al farmaco rispetto al disagio psichico, spesso si finisce tristemente a dover considerare che “la cura diventa peggiore del male”, in termini di dipendenza dal farmaco o uso erroneo ed indiscriminato dello stesso. Dico questo non per criticare tout court la psicofarmacologia, ma per sensibilizzare invece verso una più attenta “psicofarmacologia dinamica”, ossia una terapia in cui la somministrazione di psicofarmaci sia accompagnata da una seria psicoterapia per gran parte della durata del trattamento psicofarmacologico, almeno fino a quando la “compliance”, ossia il corretto utilizzo del farmaco, non sia adeguata. Detto ciò, è altrettanto vero che la psicoterapia ha non poche responsabilità nell’aver divulgato un concetto di benessere psichico per molti versi ambiguo. Come scrivono in modo provocatorio Michael Ventura - noto giornalista americano - e James Hillman - uno dei più grandi psicoanalisti junghiani della nostra epoca purtroppo venuto a mancare lo scorso anno - in “Cent’anni di psicoanalisi e il mondo va sempre peggio”, qualcosa, nel discorso psicoanalitico, non ha funzionato. Il mondo, cioè, malgrado la cultura psicoanalitica sia ben radicata in tutto l’occidente, non è certo migliorato, in termini di guerre, false idealizzazioni, conflitti sociali, disagi psichici. Senza scadere in facili moralismi, la società dell’ “essere” è stata evidentemente sepolta sotto la società dell’ “avere” e, in questo decadente processo, anche le categorie di professionisti che si occupano di salute mentale hanno svolto un ruolo collusivo rispetto ad un certo clichè di benessere psichico dove fama, fortuna e notorietà sono erroneamente indicati come equivalenti di felicità e “ben”-“ essere”. Forse aveva ragione Erich Fromm, quando sosteneva che il più grande paradosso della società contemporanea è quello per cui un individuo lavora fino a 10 ore al giorno per potersi godere un “tempo libero” che poi, invece, finisce per “ammazzare”. Probabilmente, gli psicoterapeuti dovrebbero seriamente impegnarsi in un processo culturale volto al recupero del valore dell’ “essere” rispetto a quello dell’ “avere””.
Le è mai capitato di essere “perseguitato” da un paziente per richiesta di supporto psicologico?
“Sinceramente no. Si verificano, naturalmente, circostanze in cui i pazienti richiedono un supporto al di fuori dal “contratto terapeutico”, cioè in orari o giorni non concertati. Tuttavia, credo che in questi casi si sia trattato di reali emergenze, o situazioni vissute come tali, a cui si deve dare una risposta nell’immediato, ma che poi possono essere analizzate meglio nel corso della terapia”.
Lei esercita il metodo junghiano o freudiano?
“Freudiano”.
Devono credere nella terapia i pazienti perché questa abbia effetti o ci può essere una fase iniziale, di distacco e poi una secondaria di fiducia?
“Questo è un tema fondamentale che è stato ampiamente dibattuto sin dalle origini dei metodi di cura psicologica. Personalmente credo che sia necessaria, sopratutto all’inizio, la co-costruzione di una buona “alleanza terapeutica”, una sorta di base sicura da cui poter partire per sviluppare empatia e fiducia, condizioni necessarie che determinano il buon andamento del lavoro d’analisi dei conflitti psichici all’interno del campo psicoterapeutico. L’ “alleanza terapeutica”, tuttavia, non deve essere confusa con “amicizia”, “simpatia”, “fede” o “speranza”. È, allo stesso tempo, condivisione del “contratto” terapeutico - in cui il paziente si impegna a rispettare gli orari e i giorni delle sedute ed altri aspetti della terapia ed il terapeuta si impegna a lavorare con lui in modo etico, professionale e deontologico - rispetto per la “persona”, astensione da giudizi e moralismi, capacità di sintonizzarsi emotivamente”.
E’ vero che non possono rivolgersi a lei come psicologo i suoi amici?
“Freud era solito dire: “Se un vostro conoscente vi racconta di aver fatto un sogno e vi chiede di interpretarlo, astenetevi dal farlo”. Al di là della citazione, uno dei princìpi che determina un buon andamento terapeutico è quello della “neutralità”. Wilfred Bion, uno dei più grandi pensatori della psicoanalisi, sosteneva che l’analista dovesse porsi di fronte al paziente in condizioni tali da essere “senza memoria e desiderio”. Questo affinchè l’esperienza dell’analisi possa essere davvero appresa come processo creativo, in cui non ci sono ipotesi o conclusioni già scritte e preordinate.
Quantunque ci si possa sforzare, con un amico non si può assumere una posizione “senza memoria e desiderio”. D’altro canto, la “neutralità” consiste anche in un atteggiamento estraneo ad ogni forma di giudizio o moralismo che, naturalmente, sarebbero ben più difficilmente attuabili nel caso in cui si conosca precedentemente la storia della persona in terapia. Il coinvolgimento emotivo sarebbe maggiore e più difficilmente contenibile. Detto ciò, parlare con un amico in termini di “consulenza psicologica”, magari per focalizzare il problema esistenziale ed effettuare un successivo invio ad un collega, non credo sia un problema”.
Esiste una figura domiciliare della sua professione come in altri paesi europei?
“Nella mia esperienza conosco alcuni colleghi che, in casi di patologie psichiatriche gravi – come autismo o schizofrenia – svolgono questo tipo di trattamento. Anche a me è capitato di svolgere consulenza domiciliare in casi di pazienti con gravi patologie oncologiche. Nel panorama italiano in questi anni si sta molto dibattendo sulla figura dello “psicologo di base” che dovrebbe affiancare il “medico di base”. Se questo progetto andrà in porto – lo spero ma ahimè ne dubito – probabilmente saranno più frequenti i casi di consulenza o trattamento psicologico domiciliare”.
Nei corsi di aggiornamento qual è la patologia più diffusa?
“Sicuramente la depressione post-partum, l’organizzazione borderline di personalità (uno stato al limite tra il nevrotico e lo psicotico) e i disturbi da dipendenza (addiction disorders, ossia dipendenza da gioco d’azzardo, internet, droga, alcool, sesso”).
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