Lamezia Terme - "Salvatore Aversa negli ultimi mesi della sua vita era molto preoccupato. Non l'ho mai visto in quel modo. Fu lasciato solo ed esposto contro la mafia e il potere politico-mafioso". Non sono le parole di un cittadino qualunque. Sono le parole pesate e pesanti, lucide, commosse e intrise di rabbia pronunciate al nostro giornale dal dottor Antonino Surace, ex dirigente del Commissariato di Polizia di Lamezia Terme. Oggi 85 anni portati bene e con la fermezza e la dignità di chi ha sempre lottato a testa alta, guardando in faccia il "nemico" per onorare la divisa del poliziotto integerrimo. Sono le parole di chi per 12 anni, fino al 1984, ha guidato il commissariato di Lamezia Terme in anni difficili e avendo come stretto collaboratore il sovrintendente, Salvatore Aversa ucciso nell'allora via dei Campioni insieme alla moglie, Lucia Precenzano il 4 gennaio 1992. Surace-Aversa, una coppia di "ferro", una coppia "tosta" che non dava tregua alla criminalità comune e organizzata della Piana lametina.
Oggi Surace vive lontano dalla Calabria, dalla sua terra. Si definisce un "calabrese con la testa dura", e non è il solito luogo comune. No. Surace ama la verità, l'ha sempre amata e quando dall'altro capo del telefono ci risponde, il cronista non può non avere un attimo di sussulto nell'approcciare l'uomo e il poliziotto conosciuto fin da ragazzo per le sue "imprese" sul territorio.
Chi ordinò di uccidere Salvatore Aversa?
"Io dico quello che ho sempre detto nel processo, che Aversa non poteva essere stato ucciso da due ragazzi, ma che Aversa era stato ucciso a livello mafioso-politico.
È vero che Aversa venne da lei, e lei gli consigliò di cambiare aria?
"Questo è sicuro al cento per cento. Perché, guardi, la verità va detta. Perché ho sempre detto la verità a me stesso e ai giudici. Prima di ogni cosa, io sono andato via da Lamezia su mia richiesta perché ho visto che le cose stavano cambiando e che non si poteva più agire come una volta che c'era una certa comprensione dai magistrati, no. E davano la caccia ai poliziotti. A questo punto ho chiesto di andarmene. Aversa è rimasto a Lamezia e per sette, otto anni non mi ha fatto una telefonata cose che io ho detto in udienza. Io periodicamente andavo al mare perché ho un piccolo appartamento. E così un giorno ho visto comparire Aversa al mare da me, a cercarmi...".
Perché era venuto da lei?
"Era molto preoccupato, perché solitamente al mare si va con il costume, lui era vestito normalmente e quello che mi faceva impressione era che lui faceva vedere la pistola che aveva alla cintura. Eravamo in sostanza tutti bagnanti e a me questa cosa fece sensazione".
Parliamo dell'estate precedente al duplice omicidio? Quindi siamo nei mesi estivi del 1991? Giusto?
"Si esatto. Io cosa ho detto? Ho detto vedendolo, Aversa, lei è preoccupato? Mi accennò qualcosa. Anche se non parlava molto perché era di poche parole, un uomo orgoglioso, dignitoso, giusto e aveva ragione. E’ preoccupato di cosa? Dissi io. Mi fece capire che aveva un problema col suo dirigente (Arturo De Felice, ndr) che lo aveva molto esposto. Così mi aveva detto".
Si sentiva solo?
"Sì, era stato esposto e lasciato da solo. Allora io non ho detto nulla. Ma visto che in quel periodo gli era nato un nipotino o una nipotina, non ricordo, figlia del primogenito gli dissi: senta vorrei venire a casa a salutare la signora e vedere la bambina. Dato che Aversa aveva un appartamentino pure al mare, gli ho detto, vengo nel pomeriggio. Sono andato quel pomeriggio a vedere questa bambina, poi scherzando diciamo, e non portandola sul tragico, gli ho detto in presenza della signora e del figlio: Aversa che fa l'eroe? Non è meglio che se ne vada dal commissariato? Non è meglio che si faccia assegnare ad un altro incarico? E anzi gli indicai pure dove. Alla Ferroviaria di Lamezia. Scherzando gli dicevo ormai è vecchio, che fa le battaglie?".
Ma lei suggerì questo perché aveva fiutato che era una guerra impari contro le cosche?
"Si era così. Non ce la poteva fare. Finché c'ero io...".
Eravate una coppia temutissima e a Lamezia la ricordano ancora.
"Guardi, io mi assumevo la responsabilità di tutto. Non la buttavo addosso ai sottufficiali. L'odio era concentrato su di me, ed era giusto perché io ero il dirigente. Io che impostavo le investigazioni..."
Con Aversa al suo fianco...
"Aversa era il mio diretto collaboratore. Un uomo leale e corretto, ed io avevo grande fiducia in lui. Dopo di me ci sono stati quattro o cinque dirigenti e lui era leale con tutti”.
Alla fine però lui rimase solo a combattere contro quel potere politico-mafioso?
"Si, c’era un potere politico-mafioso e dato che ad Aversa piaceva investigare, nessuno lo affiancava in maniera aperta. Lo doveva affiancare il dirigente che tirava anche gli altri. Invece, io l'ho sempre detto: lui fu lasciato solo lì. E la mia preoccupazione - conoscendo l'ambiente - era che quando un poliziotto o un cittadino viene lasciato solo, viene lasciato allo sbaraglio. L'attesto per mia esperienza diretta. Ma io queste cose le ho dette in udienza. Un Sostituto mi aveva creduto, poi hanno assolto quei due e io dissi Aversa non poteva essere ucciso da questi due, doveva essere la mafia che si era mossa e dietro ci doveva essere la politica pure, parliamoci chiaro. Li era tutto così. Purtroppo devo dire che non doveva camminare con la moglie, la povera signora non c'entrava un tubo. Ecco perché la vigliaccheria di questi delinquenti. Ma le dirò di più, fu una cosa ancora più assurda quando hanno bruciato il cadavere. Una cosa che non era mai avvenuta nella storia della criminalità. Mai avvenuta, non è che la mafia uccise Falcone e poi andò a bruciare il cadavere. Dopo la morte finisce tutto. Qua c'è qualcosa in più che mi rode il cervello".
Come se lo spiega questo sfregio ulteriore?
"Hanno voluto manifestare un'azione di disprezzo totale, gli hanno voluto dire: tu ti sentivi chissà chi. Ma erano dei delinquenti contorti e pazzi".
A distanza di anni possiamo parlare di responsabilità politiche specifiche?
"Lì ci fu la responsabilità del ministero. Quando uccisero il povero Aversa sono arrivati dal ministero tutti quei grandi kamikaze di investigatori, ma stando chiusi nei loro uffici. E la prima cosa che fece il procuratore della Repubblica di Lamezia, Pileggi persona perbene, questo è fondamentale dirlo, la notte stessa dell’agguato mi mandò a cercare perché mi trovavo in Calabria in quel periodo, operavo con Cordova a Palmi. E Pileggi cercò di me dicendo: chiamate Surace, chiamate Surace. Lui sapeva che io avevo passato una vita a Lamezia, 12 anni con Aversa. Deve sapere qualcosa, pensava Pileggi. Era una cosa elementare. Bene, sono venuti a trovarmi di notte, mi hanno avvisato per telefono, avevo lasciato un recapito. Mi dissero state attento che hanno ammazzato ad Aversa, mi hanno telefonato dal commissariato e dopo sono corso dal procuratore mettendomi a disposizione. Ebbene, il signor dirigente di allora insieme ai quei kamikaze di allora venuti da Roma, hanno detto che io dovevo essere estromesso dalle indagini, così come fu estromesso lo stesso Pileggi perché le indagini erano già chiuse con quelle scemenze di quella là (Rosetta Cerminara, ndr) pensavano secondo loro che io avrei partecipato alla gloria di che? Ma per carità di Dio".
Secondo lei Aversa ha lasciato qualche traccia?
"No, Aversa non era il tipo che scriveva. Perché è venuto a cercare me dopo sette, otto anni? Perché non è andato dal suo dirigente? Quest'uomo aveva fiducia piena in me. Un uomo altamente dignitoso, ha cercato di accennarmi qualcosa e io sono andato a fare pressione sulla moglie, su di lui perché se ne andasse dal commissariato. Guardi, per tornare al nostro incontro, vedere Aversa in quelle condizioni, significava che Aversa aveva subito delle minacce. Lo ricordo come un uomo serio. Un uomo posato. Non vieni da uno come me a dimostrare debolezza, doveva avere molta paura per quello che stava facendo".
E poi arrivò lo scioglimento del Consiglio comunale. Forse aveva toccato nervi troppo scoperti? Una vicenda che allora scosse la politica, soprattutto certi partiti e certi personaggi. Fu un vero e proprio terremoto che scombussolò molti interessi…
"Diedero la colpa a lui. Tutti. Ma quelle cose le doveva scrivere lui o il dirigente, o il questore? Con me le informative le facevo io e firmavo io. Gli altri sa cosa hanno fatto? Il dirigente ha allegato la relazione di Aversa, io la so la tecnica, la furbizia. Io appaio bravo, scrivo che bisogna...vedi giusta relazione del funzionario. La relazione fu sua. Aversa aveva paura. Aveva cercato aiuto e lo doveva ottenere dal suo dirigente e da tutta la struttura della polizia. Aversa fu lasciato solo. Io ho questa convinzione che ho detto. Ripeto, ho detto nei processi sempre. E poi l'infamia è stata quella di uccidere la sua donna. Chi ha voluto dare credito a quelle versioni sbagliate era un complice, o comunque non ha fatto bene il suo dovere".
Antonio Cannone
© RIPRODUZIONE RISERVATA