Lamezia Terme - Partire con la promessa di un lavoro serio e onesto in Italia e ritrovarsi, prima ancora di arrivare, schiave della prostituzione. Un copione che si ripete e che delinea ancora storie di sfruttamento: quelle di giovani ragazze nigeriane venute alla luce dopo mesi di indagini da parte dei carabinieri del Gruppo di Lamezia, coordinate dalla Procura Distrettuale Antimafia e che ha portato al fermo di sette persone che sono ritenute dagli inquirenti appartenenti ad una vera e proprio sodalizio criminale che avrebbe organizzato i viaggi dalla Nigeria, passando dalle prigioni Libiche per poi far arrivare le ragazze in Italia e metterle sulla strada.
Tutto parte dalla denuncia di una ragazza che ha raccontato la sua storia di violenze e costrizioni, da vera e propria schiava del sesso, agli inquirenti che, raccolte le informazioni, hanno attivato le indagini. Quello che ne è venuto fuori è stato il disvelamento di una vera e propria tratta di donne, usate come oggetti e utilizzate come fossero merce di scambio.
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Il viaggio dalla Nigeria passando per la Libia: le violenze e abusi nelle prigioni
L’operazione è stata chiamata in codice “Locomotiva”, dalla zona di Sant’Eufemia vicino la stazione ferroviaria, nota per essere luogo dove avviene la prostituzione. Quello che c’è dietro queste giovani donne e che è stato scoperto nasconde storie di “reclutamento” attraverso riti vodoo e juju, promesse di lavoro non mantenute e ricatti fisici e morali.
Tutto parte dalla Nigeria, dove le ragazze venivano convinte a partire per il bel paese per fare lavori onesti: da lì, dietro il pagamento di una somma di denaro, il cosiddetto debito che, le avrebbe vincolate ai loro aguzzini, cominciava il lungo viaggio tormentato. Passando dal deserto del Niger, fino ad arrivare in Libia: a pochi passi dall’Italia, per le ragazze cominciava il bruto “rodaggio”. Nelle prigioni libiche, diventavano oggetti sessuali, abusate e violentate, costrette a prostituirsi ancora prima di sbarcare. L’organizzazione non si fermava neanche davanti alla prigionia, ma era così radicata che riusciva ad avere contatti anche con quelli che sono stati definiti “connection men” libici che, dietro il pagamento di una somma di denaro, liberavano le ragazze per farle diventare nuovamente schiave in Italia.
Rintracciate nei centri di accoglienza, la vita da schiave del sesso delle giovani nigeriane
Arrivate in Italia la vita non era quella prospettata: venivano rintracciate nei centri di accoglienza, in un caso anche a Foggia tramite un contatto a Napoli, prelevate e tenute “legate” alla vita da strada. A fare da collante al tutto, la figura delle Madame, che le circuivano, le costringevano con i riti vodoo, le minacce e le botte a continuare quella vita. Cinque quelle sottoposte a fermo dei carabinieri, che operavano tra Lamezia, nelle zone di Sant’Eufemia e Sambiase, Amantea e Rosarno.
Gratteri: “Prima dei reati per noi è fondamentale preoccuparci della libertà delle persone”
“Si tratta di una indagine delicata, perché riguarda l’animo, la libertà fisica e psichica degli esseri umani, E per noi è fondamentale occuparci della gente che soffre prima ancora dei reati, dobbiamo preoccuparci della libertà delle persone” ha commentato il procuratore capo della DDA Nicola Gratteri che ha spiegato come nulla da parte dell’organizzazione “fosse lasciato al caso”.
Bombardieri: “E’ emerso il pagamento per il controllo in alcune aree, sono in corso ulteriori accertamenti”
Più nel dettaglio è sceso il procuratore aggiunto Giovanni Bombardieri che, insieme al sostituto procuratore Debora Rizza, ha coordinato le indagini: se nulla veniva lasciato a caso, appunto, ogni ragazza era seguita passo passo nel tragitto, sfruttando soprattutto le condizioni molto precarie economicamente delle ragazze. Si parla, tra l’altro di giovanissime, perché tra sfruttate e le “madame”, che poi non sono altro che ex prostitute che “ce l’hanno fatta”, l’età si aggira tra i 19 e i 30 anni.
“Ogni madame ha a disposizione cinque, sei, sette ragazze – ha specificato il procuratore – e ogni madame ha una mutua collaborazione con le altre. Si scambiano posti, ragazze e consigli, anche su come gestirle e vincere la riottosità di alcune. Magari picchiandole, ma non troppo, o sottraendo loro i documenti”. Il procuratore, che ha ringraziato sia il Gruppo dei carabinieri che la Procura lametina per il lavoro svolto, ha sottolineato come tutto ciò che era stato formalizzato con la denuncia della ragazza, è stato poi confermato nel corso delle indagini. “Fatto grave – ha commentato poi Bombardieri – in un caso si è discusso di ‘affrancare’ una persona: saldato il debito contratto perché aveva lavorato sodo, una ragazza è stata liberata per la buona condotta. Un motivo in più, per le altre ragazze, per aumentare la mole di lavoro con la speranza di poter anche loro tornare ad essere libere e non più schiave”. Considerando anche le zone, poi, e il fatto che siano emersi nel corso delle indagini, possibili pagamenti in riferimento alle varie zone, si stanno effettuando ulteriori accertamenti su chi possa esserci dietro.
Tenente Colonnello Ribaudo: “Madame avevano cassa comune per acquistare nuove ragazze”
“Parte dei proventi venivano messi nella cassa comune per acquistare nuove ragazze” ha spiegato il tenente colonnello Massimo Ribaudo, a capo del Gruppo carabinieri di Lamezia. Come in tutte le organizzazioni criminali anche questa aveva la sua “bacinella”, nella quale mettere parte dei proventi delle attività illecite e così reinvestirli. Solo che in questo caso i soldi venivano investiti nella tratta delle ragazze, considerate come “oggetti di loro proprietà”.
Tribuzio: “Un livello affinato del sodalizio, in grado di fronteggiare qualsiasi imprevisto”
Il comandante della Compagnia dei carabinieri di Lamezia ha specificato la capillarità del sodalizio, che dalla Nigeria, seguiva un percorso preciso e, soprattutto, “la loro forza era avere l’uomo giusto al posto giusto”.
Claudia Strangis
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