Lamezia, il nuovo libro del pm Manzini: "La ‘ndrangheta non è invincibile se decidiamo di difendere una donna che si ribella"

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Lamezia Terme - Continua anche a colpi di libri la lotta alla ‘ndrangheta di Marisa Manzini, oggi Sostituto Procuratore Generale di Catanzaro, che ha presentato al Chiostro caffè letterario di Lamezia il suo ultimo lavoro: “Donne custodi, donne combattenti. La signoria della ‘ndrangheta su territori e persone”. Un titolo che dice già tanto, perché parla di una criminalità capace di tenere sotto il suo giogo opprimente non solo dei luoghi geografici ma delle persone fisiche: donne che diventano custodi di valori come il patriarcato, l’obbedienza devota, la vendetta, l’omertà e l’emulazione della violenza, oltreché di patrimoni e di potentati territoriali. Donne che a volte si ribellano, dall’interno di una famiglia mafiosa o come vittime e testimoni di soprusi, e diventano combattenti, “per offrire ai propri figli un futuro migliore, dando uno schiaffo al potere illecito”, come sottolinea il Procuratore Generale di Catanzaro Giuseppe Lucantonio, ospite della presentazione moderata dal giornalista Arcangelo Badolati. 

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Marisa Manzini racconta entrambe le facce di questa medaglia così pesante da portare a livello sociale. Perché scegliendo di stare da una parte o dall’altra queste donne scelgono il proprio destino, pagando spesso un prezzo altissimo in entrambi i casi. È il caso di Tita Buccafusca, moglie del Pantaleone Mancuso che minacciò Manzini durante un processo, la quale decide di collaborare ma poi non ha la forza e torna indietro: muore ingerendo dell’acido muriatico, in quello che si vorrebbe far credere un suicidio. E non è l’unica. “Quello dell’acido è stato un segnale fortissimo. Che ha fatto paura”, dice Manzini cercando il motivo di un arretramento dell’ondata di ribellione che aveva investito le donne della società ‘ndranghetista a partire dai primi anni 2000. Una ribellione che ha coinvolto Giuseppina Pesce, che a 23 anni aveva già tre figli, e che sfugge alla sua sorte dopo aver visto il cognato picchiare uno di loro perché aveva detto di voler fare il carabiniere. “Sono donne date spose bambine per sancire alleanze, che in quegli anni scoprono grazie ai social network che fuori dalla famiglia esiste un altro mondo, e un modo di vivere diverso e indipendente, in cui ritrovare la dignità che hanno perso fra le mura di casa”, dice ancora Manzini. Donne che magari sui social si innamorano, stavolta di un uomo che non le usa come schiave sessuali o produttrici di prole, ma che sa parlare di altro. La soluzione per porre rimedio all’apparente battuta d’arresto di queste ribellioni? “Ci vuole un percorso burocratico più facile per la protezione”, dice chiaramente Lucantonio, sottolineando la necessità di un intervento legislativo e amministrativo più efficace per tutelare chi decide di collaborare. Soprattutto quando chi lo fa è un soggetto reso fragile dall’abbandono e dal distacco dai proprio affetti, come è stato per Denise Garofalo, figlia di Lea, che sola contro tutti ha fatto comunque la sua scelta, da innocente. Come Sara Scarpulla, madre coraggio che ha visto bruciare il proprio figlio in una macchina saltata in aria perché il clan gli contendeva la proprietà di un terreno. 

famiglia-vinci-bomba-di-limbadi_15bf9.jpgSara Scarpulla e il marito Francesco Vinci, genitori di Matteo ucciso da una bomba a Limbadi nel 2018

Presenti in sala vicino a lei, assieme alle autorità militari del territorio lametino e quelle delle Procura, anche il sindaco Mascaro e il vescovo Schillaci, testimone di una Chiesa sempre più attiva nella lotta alla ‘ndrangheta, come sancito dalla Conferenza Episcopale Calabra in un documento del settembre scorso. “Questi incontri sono utili se resta qualcosa - conclude Manzini - e la ‘ndrangheta non è invincibile se decidiamo di difendere una donna che si ribella”.

Giulia De Sensi

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