Agnese Moro a Lamezia: “Ho incontrato e dialogato con chi ha ucciso mio padre”

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Lamezia Terme - Ha fatto tappa a Lamezia la visita in Calabria di Agnese Moro, figlia del senatore democristiano sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse nella primavera del 1978. Presso l’Oasi Bartolomea, Agnese Moro ha raccontato la sua esperienza non scontata di dialogo e di incontro con i colpevoli della morte di suo padre, in un convegno incentrato sul tema della giustizia riparativa, introdotta normativamente dopo la Riforma Cartabia, che prevede percorsi collaterali alla giustizia penale finalizzati, secondo le sue parole, a “riparare l’irreparabile”, ovvero a stabilire un momento di contatto e successivamente una relazione fra vittima e carnefice, oltre lo stigma che rischia di segnare entrambi per sempre. Intervenuti al convegno, dedicato particolarmente agli operatori e ai volontari del sistema penitenziario, Monsignor Francesco Savino, vescovo della diocesi di Cassano allo Jonio e delegato della Conferenza Episcopale Calabra per la Pastorale Carceraria; il professor Luigi Mariano Guzzo, docente di Diritto e Religione all’Università di Pisa; il professor Charlie Barnao, professore ordinario di Sociologia all’Università di Catanzaro; don Francesco Faillace, delegato regionale alla Pastorale Carceraria.

"Negli anni di piombo c’era l’idea che la violenza fosse strada per cambiare le cose"

“Siamo grati alla giustizia penale - ha spiegato Agnese Moro - perché individua i responsabili, ponendo un nome e una storia dietro a quello che ci è capitato: molti non hanno questo privilegio. Oltretutto fermare chi sta agendo in modo sbagliato è sia nell’interesse della comunità che di chi sbaglia: alcuni di loro ricordano con sollievo il momento in cui sono stati arrestati. Negli anni di piombo c’era l’idea che la violenza fosse una strada possibile se non doverosa per cambiare le cose: sia a destra che a sinistra che pure in ambienti cattolici. Oggi la politica si fa con le parole e con le idee, le cose sono cambiate, ma a me in realtà il fatto che le persone soffrano rinchiuse in galera non restituisce nulla, mi fa piacere invece che capiscano d’avere sbagliato”. Da qui il racconto della propria storia, quella di chi subisce un reato che porta a una perdita irreparabile, e si trova a dover fare i conti con “la macchina meravigliosa e infernale della giustizia penale”: processi che succhiano tempo ed energie, “la necessità di mettere da parte il groviglio di sentimenti che provi, per mesi o per anni: rabbia, rancore, disgusto, odio, orrore, sangue, il non-intervento durato 55 giorni”.

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Da tutto ciò matura una visione della realtà totalmente disillusa, rispetto a ciò che le persone siano capaci di fare: “anche le brave persone chiarisce Moro - perché di alcuni te lo aspetti. Ma nessun fatto orrendo può essere compiuto senza il consenso dei “buoni”, senza che loro decidano di voltarsi dall’altra parte”. Quei sentimenti vengono così archiviati, “chiusi nel silenzio di una goccia d’ambra, per proteggere i miei figli da un dolore che non uccideva solo me, ma chiunque lo toccasse”. Ma il silenzio non guarisce e non protegge: le parole sì. E accade nel 2009, quando 31 anni dopo la morte di suo padre, Agnese riceve la telefonata di don Guido Bertagna, che organizza incontri mediati fra autori e vittime della lotta armata. “Rifiutai l’invito, ma lui mi tenne informata sulle loro attività e decisi alla fine che potevo fidarmi: sentivo che erano persone capaci di reggere il mio dolore”. Così dopo una lunga preparazione Agnese incontra nella propria casa Franco Bassiroli, coinvolto nel sequestro di suo padre. “Aveva già scontato fino all’ultimo giorno, non doveva niente a me come a nessun altro”, racconta, “Fino a quel momento gli assassini di mio padre erano fantasmi, intravisti poche volte nelle aule di Tribunale. Invece quella volta vedendolo entrare ho visto un uomo. Non è stato facile incontrarlo, e nessuno di noi ha finto o nascosto nulla. Da allora però il dolore, che pure non è scomparso, mi lascia la possibilità di respirare, un presente e un futuro; i miei sentimenti ci sono ancora, ma sono disarmati; mio padre ha smesso di morire ogni giorno, e i fantasmi hanno smesso di emergere dalla mente, proprio perché sono esseri umani”.

Una serie di parole chiave vengono tratte da Monsignor Savino dal discorso di Agnese Moro: gratitudine, incontro, fraternità, sguardo, dolore, amicizia, tracciando un quadro della vita di Aldo Moro come figura carismatica da riscoprire sul piano umano. “Si dice che il sangue dei martiri diventa seme”, sottolinea, “e il racconto di Agnese ne è il frutto maturo”. Anche nel discorso di don Faillace la necessità di ritrovare e diffondere la figura di Moro “per ciò che ha fatto in vita, per i suoi sogni: non solo a scopo di audience cercando colpevoli”. Inoltre una critica profonda del sistema carcerario italiano, ripresa anche dai docenti Guzzo e Barnao, quest’ultimo delegato del Rettore dell’Università di Catanzaro per l’insegnamento in carcere, dove insegna le discipline di Sociologia della sopravvivenza e Sociologia della devianza. Barnao ha esposto la propria fruttuosa esperienza didattica, e il proprio approccio metodologico ispirato ad Ignazio di Loyola, missionario fondatore dei gesuiti. “Non c’è nulla di cristiano o di costituzionale”, ha concluso, “in un sistema carcerario che fa scontare la pena in luoghi di sofferenza ed esclusione, che produce il 70% delle recidive, dove i suicidi superano in una percentuale fra il 13% e il 17% il numero di quelli registrati all’esterno, sia fra i detenuti che fra gli agenti penitenziari: sintomo di un ambiente tossico per chiunque lo viva”.

Giulia De Sensi

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