Lamezia Terme – I ruoli dei componenti della cosiddetta commissione e di tutta la cosca Giampà, a partire dal capo clan, “Il professore”, per passare alla ricostruzione minuziosa degli omicidi dal 2005 al 2011: il pentito Saverio Cappello ha parlato per più di cinque ore oggi al Tribunale di Lamezia (presidente Fontanazza, Aragona e Monetti a latere) sollecitato dalle domande del pubblico ministero Elio Romano.
Dopo un fallito agguato ai danni di Vincenzo Torcasio “Carrà” nell’agosto del 2005, dopo il quale lui e Angelo Torcasio seminarono una pattuglia della Guardia di Finanza che li stava inseguendo; Saverio Cappello ha raccontato di come, intorno al 2006, ci fu un tentativo di mettere pace con la cosca avversaria. A promuoverlo Pasquale Giampà “Millelire” che si avvicinò ad Antonio Gualtieri e Massimo Crapella: una sorta di tregua, “una pax” come l’ha definita in aula il pentito, proprio perché i Giampà stavano compiendo una carneficina ai danni dei Cerra-Torcasio-Gualtieri. Seguirono diverse riunioni rappacificatrici nella stalla di Pasquale “Millelire” tra Vincenzo Bonaddio, qualche famiglia reggina, alcuni componenti dei Torcasio, e altri, invece, della famiglia Iannazzo. Una tregua che non piaceva però a molti: troppi i sospetti che in realtà, dietro quella pax, ci fosse un tradimento alle spalle. A scoprire la montatura, secondo Cappello, ci pensò la polizia che convocò Pasquale Giampà per avvisarlo che la sua vita era in pericolo proprio per un agguato organizzato dal clan rivale. “Da lì in poi – ha spiegato Saverio Cappello – qualsiasi Gualtieri sarebbe diventato un possibile obiettivo per un omicidio”. Il segnale, la risposta a quella montatura, ci fu con l’organizzazione dell’omicidio a Pasquale Gullo e Pasquale Torcasio. Un omicidio che fallì e che “costrinse” la cosca Giampà ad organizzarne un altro: si decise per un membro dei Gualtieri, e si pensò di colpire Federico Gualtieri che ogni mattina andava a vendere frutta con la moglie. L’omicidio si consumò di mattina presto, poco dopo l’apertura del bancarella ed a sparare fu proprio Saverio Cappello: scese dalla moto guidata da Angelo Torcasio e si avvicinò alla vittima che non appena lo vide scappò invano, Cappello gli sparò diversi colpi di pistola e, mentre si allontanava, la moglie di Federico Gualtieri lo inseguì per colpirlo alle spalle. “Dopo quell’omicidio, - ha raccontato in aula – subii un blocco, feci come un esame di coscienza. Non me la sentivo più di compiere materialmente gli omicidi ma delegavo altri affiliati”.
Il racconto del pentito si sposta poi all’omicidio di Bruno Cittadino, già nel mirino della cosca da tempo, ma che fu voluto fortemente da Giuseppe Giampà che aveva saputo che Cittadino avrebbe offerto per la sua testa 100 mila euro. Dell’omicidio, al quale non partecipò direttamente, gli fu raccontato una settimana dopo a cena dallo stesso Giuseppe Giampà: il figlio del boss ordinò lo champagne e propose di “brindare a quel cornuto”. E nel suo racconto Saverio Cappello non ha risparmiato altri particolari come questo, così come quando ha ricordato che Giuseppe Giampà e Maurizio Molinaro si scusarono del ritardo al 18esimo compleanno di sua sorella perché era avvenuto da poco l’omicidio di Roberto Amendola. Capitolo a parte l’assassinio di Giuseppe Chirumbolo, ucciso perché Giuseppe Giampà credeva che volesse tradirlo. Nelle dichiarazioni di Saverio Cappello in aula oggi, si evince come Chirumbolo si fosse lamentato con lui più volte della gestione del denaro da parte di Giuseppe Giampà e di come in un’occasione gli propose addirittura di farlo fuori. Cappello, pensò fosse una trappola e, in un incontro con il figlio del boss qualche giorno dopo, decise di raccontargli quanto accaduto. Le sue parole sconvolsero Giuseppe Giampà che poi organizzò effettivamente tutta l’azione omicidiaria per uccidere Giuseppe Chirumbolo.
Cappello ha spiegato anche le motivazioni della lite con sparatoria su via del Progresso tra lui e i fratelli Trovato: liti e scaramucce familiari che sfociarono in una sparatoria vera e propria. Il pentito in macchina con Domenico Chirico “battero” incrociò nei pressi del cavalcavia un’auto con a bordo Luciano e Concetto Trovato che tentarono di farli sbandare, mentre accostati in un’altra auto c’erano Franco e Gino Trovato che cominciarono a sparargli addosso. “Compiendo quel gesto nei miei confronti – ha detto in aula il pentito – si sentivano appoggiati dal clan, altrimenti non l’avrebbero mai fatto” mentre poi, a qualche giorno dalla sparatoria, ci fu un incontro chiarificatore e rappacificatore tra le due famiglie.
Saverio Cappello tornerà a parlare in videoconferenza il prossimo venerdì: dovrà raccontare tutto ciò che sa sui singoli imputati di questo processo e probabilmente sarà la volta poi del controesame degli avvocati.
C.S.
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