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Calabria, la nobiltà regionale durante la dominazione spagnola
Scritto da Lametino 5 Pubblicato in Francesco Vescio© RIPRODUZIONE RISERVATA
La Spagna ebbe il dominio dell’Italia meridionale continentale - in termini politico-diplomatici del Regno di Napoli - per poco più di due secoli: dal XVI ai primi anni del XVIII; la Calabria era parte integrante di tale organismo statuale, allora definito <<Viceregno di Napoli o Vicereame>>; ecco come è stato descritto l’inizio di tale nuova forma di governo: “A chiusura della guerra tra Francia e Spagna per il predominio sull’Italia, Napoli passò alla Spagna (1503). L’anno dopo ebbe inizio la dominazione spagnola. Ferdinando il Cattolico, qualche anno dopo, lasciò il regno alle cure di un <<vice>>” (Enzo Misefari, Storia Sociale della Calabria- Popolo, Classi Dominanti, Forme di Resistenza dagli Inizi dell’Età Moderna al XIX Secolo, Jaca Book, Milano, 1976, p.11). C’è da evidenziare che in quel momento storico Napoli era una delle città più importanti d’Europa, da come si può desumere dal passo successivo: “Alla fine del Cinquecento le due città europee più popolose erano Parigi e Napoli, con oltre 200.000 abitanti ciascuna. Tra il 1545 e il 1582 la popolazione di Londra crebbe da 80.000 a 120.000 abitanti; Roma passò da 50.000 a 100.000 abitanti tra il 1526 e la fine del secolo; Lisbona da 65.000 a 100.000 abitanti tra il 1550 e il 1600 Anche ad Anversa, ad Amsterdam e a Venezia si verificò un forte aumento del numero di abitanti. Il motivo principale dell’aumento della popolazione urbana fu lo sviluppo dell’attività commerciale, delle manifatture e dell’amministrazione pubblica” ( Rosario Villari, Mille Anni di Storia- Dalla Città Medievale all’Unità dell’Europa, Laterza, Roma-Bari, 2000, p. 128).
Il Regno di Napoli all’inizio del Cinquecento era considerato in Europa uno Stato di notevole importanza, ecco il motivo per cui era stato fortemente conteso da Francia e Spagna. La situazione della Calabria al momento del passaggio dalla dominazione aragonese a quella spagnola è stata così delineata nei suoi aspetti problematici più rilevanti: “E quindi, che una plebe – come quella rurale di Calabria- che diversi secoli di oppressione avevano reso abulica e debole, si schierasse apertamente e sfidi le più crudeli punizioni per liberarsi della povertà e spezzare la catena degli abusi, è già una manifestazione di vitalismo: elementare e – dirò meglio- primitiva, come dimostrano poi i riflessi che la repressione dei suoi gesti lascerà sedimentare nel suo animo ignorante – con la negazione e col cupo disprezzo per i canoni giuridici e l’autorità governativa, che eromperà infine nel brigantaggio-: ma non perciò meno carica di significato e di rilievo. Se quella vitalità, che non si può negare, non emerse in forme civili ma degenerò nella anarchia, di questo è responsabile per buona parte il baronaggio. A cui giovò certamente il frequente mutare di famiglie regali [Si erano alternate prima di quella spagnola quelle: normanno-sveva, angioina ed aragonese, N.d.R.] – e quindi di direzioni politiche – sul trono di Napoli e la gran distanza fra Napoli e la Calabria (verso la fine del quindicesimo secolo un viaggio per strada da Napoli a Cosenza aveva una durata di 10- 12 giorni; e per mare da Napoli a Reggio richiedeva almeno 5-7 giorni). Era naturale che ogni nuova gestione dinastica iniziasse - anche solo per svolgere la sua autorità – un’opera di imbrigliatura o decantazione o controllo del baronaggio. Ma così radicata e vasta era la forza di quello, che ogni iniziativa tesa a diminuirlo e a disciplinarlo fu vana: ci si provò per l’ultima volta la dominazione iberica, nel 1503 impostasi dopo un lungo periodo di guerre con la Francia, che avevano colpito pure in più luoghi e dolorosamente la Calabria (ricordo le battaglie di Seminara del 1495 e del 1503).
E con i primi spagnuoli ci fu – specialmente ai tempi del viceré Pietro da Toledo – uno sforzo per addivenire alla istituzione di una struttura governativa più moderna: ma anche tale iniziativa – perché svolta in forme contraddittorie e con strumenti inadeguati- si chiuse nel peggior modo pensabile. Una relazione a Madrid del Toledo, scritta intorno al 1536, ci dà della Calabria un quadro nero: nella amministrazione civile, e in special modo in quella giudiziaria, la vendita degli uffici fra il ceto baronale era cosa usuale, e per colmo di iattura questi uffici cadevano in mano a persone di bassa estrazione. Quindi non v’era scampo alla prevaricazione e alla delinquenza, che invero- quando scendevano sul capo di popolazioni umili e inermi e di chiunque non era nella aureola degli ambienti baronali- venivano di regola coperte da un simulacro di legalità […] La soluzione che la corte ispanica usò per domare il baronaggio fu quella di trasferir a Napoli, con vari onori e richiami i baroni. E così ai tempi del Toledo e più avanti, le famiglie dei baroni lasciarono a mano a mano la regione o meglio smisero di dimorarci abitualmente, assegnando ad agenti o notari locali la cura dei loro feudi e la raccolta dei loro proventi: non ebbe termine però, con questo esodo, quel clima sociale disumano che la loro azione aveva creato nel maggior numero delle comunità ( le terre infeudate erano verso i termini del secolo sedicesimo, 312 su un totale di 326 comunità). Per di più la corte ispanica pose le comunità costituenti demani (una quindicina: fra cui le località di maggior rilievo) in mano di nuovi funzionari, di origini forestiere – cioè in genere spagnuoli – e per lo più mediocri, ignoranti delle condizioni della Calabria, dediti a ogni forma di rapina, avidi e protervi” (Lucio Gambi, Calabria, Utet, Torino, 1978, pp.153-157). I rapporti tra Corona spagnola e feudatari mutarono profondamente nel corso degli anni; di seguito si indicheranno le tappe fondamentali di tale processo per quanto concerne la Calabria.
Riguardo alla feudalità la nuova dinastia si trovò di fronte al problema di assegnare i feudi dei nobili filofrancesi o a nuovi spagnoli, successivamente vengono specificati i termini della questione: “A seguito della pace stipulata tra Francia e Spagna nel 1505, infatti, Ferdinando si era impegnato a restituire ai feudatari filoangioini i beni sequestrati e concessi alla fazione avversaria, così come esplicitamente richiesto da Luigi XII. Il compito, però, si rivelò ben presto tutt’altro che facile, anche perché la Spagna era priva dei necessari mezzi economici per potere compensare i Baroni che, nonostante fossero stati fedeli alla Corona, si sarebbero visti defraudati dei propri possedimenti. Inoltre, era indispensabile compensare i comandanti e la nobiltà spagnola con la concessione di alcune terre” (Giuseppina Scamardi, La Calabria Infeudata, in ’Storia della Calabria nel Rinascimento - Le Arti nella Storia’, Gangemi Editore, Roma – Reggio Cal., 2002, p.76). Tale politica cambiò radicalmente dopo pochi decenni, per come viene sotto indicato: “Il 1530 segnò lo spartiacque tra le due fasi feudali, anche se i cambiamenti riguardarono in massima parte le terre più settentrionali della Calabria: gli antichi feudatari apertamente schieratisi con i Francesi, con la spedizione del Lautrec [Si tratta del comandante delle truppe francesi che combatterono contro gli Spagnoli per il predominio in Italia, N.d.R. ] del 1527-30, furono spodestati. Fu l’ultimo caso di condanna per ribellione con conseguente confisca dei beni; da questo momento la successione feudale non dipenderà più, come in passato, da motivi politici, si avrà più in generale una certa stabilità ed il diritto ereditario sarà violato solo in caso di assenza di eredi diretti, o per necessità economiche, con conseguente vendita di terre o interi feudi” (Giuseppina Scamardi, Ibidem). Il fenomeno della vendita di tanti feudi o lo smembramento di alcuni di essi si diffuse sempre di più verso la fine del Cinquecento e si ampliò nel secolo successivo con le conseguenze politiche, sociali ed economiche evidenziate nel brano successivo: “Ma questi nuovi ceti sociali, detti <<nobiltà di toga>>, in contrapposizione a quella antica, <<di spada>>, dopo un iniziale periodo di <<commercializzazione del feudo>>, assumono le stesse caratteristiche dell’antica <<nobiltà di spada>>.
Nel contempo anche se alcuni grossi possessi feudali, come quelli calabresi dei Sanseverino, vengono smembrati, si nota per tutto il corso del ’600 una certa tenuta della feudalità. Ma in tale situazione, ricorda il Villari, il Mezzogiorno d’Italia diventa un’entità marginale rispetto agli altri paesi dell’occidente europeo. A sua volta la Calabria risulta inserita nel quadro di generale ristagno che stringe il regno di Napoli, anche per la particolare situazione del suo territorio: le zone rivierasche decadono per la recrudescenza barbaresca, le cui razzie causano un abbandono ulteriore delle terre; nel contempo l’oppressione feudale si fa sempre più violenta, con un ampliamento degli abusi feudali, specie nel Marchesato, zona di latifondo a coltura granaria […] Resiste solo la Calabria <<della seta>>, cioè quelle zone dove tale prodotto viene lavorato, come le città di Reggio e Catanzaro; ma la Calabria produttrice della <<fronda>> dei gelsi, come Monteleone [L’attuale Vibo Valentia, N.d.R.] e Castrovillari, lontana dai mercati industriali consumatori, decade sensibilmente, entrando in crisi” (Maria Sirago, La Calabria nel Seicento, in ‘Storia della Calabria Moderna e Contemporanea’, Gangemi Editore, Roma – Reggio Cal., 1992, p.214 ). Da quanto sopra si desume che le cause dell’arretramento della Regione durante la dominazione spagnola furono tante, ma il baronaggio, per aspetti diversi ne fu una delle più decisive e durature.