Lamezia, Procuratore Manzini apre la tre giorni “La rivoluzione copernicana delle donne” al Liceo ‘Galilei’

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Lamezia Terme - Si apre con un incontro altamente formativo la tre giorni “La rivoluzione copernicana delle donne” organizzata al Liceo Scientifico “Galileo Galilei” e fortemente voluta dalla dirigente Teresa Goffredo in prossimità dell’8 marzo, Giornata internazionale per i diritti delle donne.

La manifestazione, incentrata sul ruolo della figura femminile nei vari ambiti della cultura e del sapere – dalla scienza all’arte, dalla filosofia alla religione – è stata inaugurata dall’intervento di una figura di spicco della Magistratura, attiva sul territorio e nella formazione dei giovani, anche attraverso le sue pubblicazioni: la dottoressa Marisa Manzini, Sostituto Procuratore della Procura Generale di Catanzaro, protagonista di un incontro sul tema “Donna, Famiglia e Società”, introdotto dalla professoressa Miriam Rocca e dai saluti della dirigente. Incontro che parte dal ricordo dell’uccisione di Mahsa Amini, divenuta emblema della rivoluzione per i diritti delle donne in Iran, ma anche personaggio simbolo della condizione femminile in senso lato. Una condizione che ancora presenta dei limiti, anche in paesi come l’Italia, dove per legge la donna ha gli stessi diritti dell’uomo. “L’essere umano ha lo stesso valore se è donna – sottolinea Manzini – e la parità di genere è sancita in innumerevoli punti della nostra Costituzione: ad esempio, agli articoli 3, 29, 37, 51, 117. Eppure è una parità che fa ancora fatica ad affermarsi. Infatti, nonostante la Carta Costituzionale sia del 1948, il concorso in Magistratura è stato aperto alle donne solo nel 1963, nel 1960 quello per la Prefettura, e solo nel 1999 quello per le Forze Armate. Per quanto riguarda il diritto di famiglia, la riforma risale al 1975: fino a quella data esisteva la patria potestà che rendeva moglie e figli soggetti all’autorità paterna, e non l’attuale potestà genitoriale che pone madre e padre sullo stesso piano. Solo dal 1968 non esiste più il delitto di adulterio, per il quale veniva punita esclusivamente la donna, mentre l’abolizione del cosiddetto delitto d’onore, e relativi sconti di pena associati, risale soltanto al 1981”. Ma retaggi d’arretratezza pre-Costituzione resistono ancora in alcune sacche malate della società: parliamo in particolare delle famiglie di ‘ndrangheta, un ambiente ben conosciuto dalla dottoressa Manzini. “Nella famiglia ‘ndranghetista la donna non ha diritti: diventa uno strumento. Ad esempio, serve per risolvere le faide attraverso matrimoni combinati con la controparte” – qui il richiamo alla giovane pakistana Saman, uccisa dai familiari perché si rifiutava di sposare l’uomo che avevano scelto per lei, una dinamica non troppo distante da quella vigente nelle organizzazioni criminali. “Certo, le donne di ‘ndrangheta possono anche assumere ruoli di rilievo nell’organizzazione” – spiega ancora Manzini – “ma sempre sotto le direttive dei maschi o quando questi non ci sono – perché in carcere, latitanti o uccisi – ovvero quando si crea un vuoto di potere. Queste donne di solito non denunciano la violenza o la sopraffazione, perché non è consentito loro di rivolgersi allo Stato o alle Istituzioni. Sono degli oggetti”. Ci sono però dei casi in cui le donne all’interno delle famiglie di ‘ndrangheta provano a ribellarsi, e lo fanno in genere per il bene dei propri figli. È il caso si Ewelina Pytlarz, una giovane polacca divenuta moglie di Domenico Mancuso, ‘ndranghetista del Vibonese, che ignara del contesto criminale viene ridotta in schiavitù dalla famiglia di lui, e dopo essersi rivolta alle forze dell’ordine vive oggi in regime di protezione con la figlia. Positivo anche l’esito della denuncia di Giuseppina Pesce, oggi collaboratrice di giustizia. Ma non altrettanto si può dire nei casi di Maria Concetta Cacciola e Tita Buccafusca che tornate sui loro passi morirono per ingestione di acido muriatico – una punizione di solito riservata dalla ‘ndrangheta a chi decide di parlare – o nel caso famoso di Lea Garofalo, uccisa e sciolta nell’acido dal marito, la quale riuscì però a dare un futuro alla figlia Denise.

Nel dibattito anche un riferimento al noto episodio vissuto da Manzini nel processo a Pantaleone Mancuso, che la minacciò in tribunale intimandole più volte di tacere. “Nel mio lavoro in realtà non mi sono mai sentita discriminata in quanto donna – ha concluso il Procuratore – e non saprei nemmeno dire se il boss Mancuso si sarebbe comportato o meno allo stesso modo se al posto mio ci fosse stato un uomo. So però che quando una donna svolge una professione prima di pertinenza maschile, ci mette di solito tanto impegno che alla fine viene accettata da tutti, dimostrandosi sempre non inferiore ai maschi”.

Giulia De Sensi

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