Lamezia, Ilda Boccassini a Trame racconta la sua storia: “Ho avuto il privilegio di aver fatto il lavoro che volevo”

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Lamezia Terme - Ultima serata di Trame, il Festival dei libri sulle mafie. A Lamezia arriva Ilda Boccassini con il suo carisma di magistrato in trincea contro la corruzione, la mafia e il terrorismo. "Ilda la rossa", come era soprannominata non solo per il colore dei capelli ma anche per le sue idee politiche, parla del libro "La Stanza Numero 30. Cronache di una vita" che all'uscita suscitò polemiche su alcuni contenuti che riguardano la sua sfera intima, anche rispetto all'amicizia con Giovanni Falcone e sui giudizi su altri colleghi. La stanza "numero 30" era quella del quarto piano del palazzo di giustizia di Milano dove lei lavorava e dove, racconta, "ci sono 30 anni di storia, una vita di inchieste".

A dialogare con lei, il giornalista Lionello Mancini. Nel libro, la Boccassini parla degli inizi della sua carriera, dei pregiudizi nei confronti delle donne, e delle donne impegnate nella magistratura. Nel trentennale delle stragi di mafia, non poteva mancare la sua testimonianza rispetto al lavoro svolto insieme a Giovanni Falcone, dall’indagine “Duomo connection” fino a quel tragico 23 maggio 1992 e quando fu trasferita da Milano a Caltanissetta per indagare sui delitti di Falcone e poi Borsellino contribuendo in maniera determinante a scovare i killer di Falcone. Indagò anche sul terrorismo, su Berlusconi e su “Toghe sporche”, sui processi Imi-Sir, Lodo Mondadori fino al "caso Ruby". Insomma, un corollario di inchieste da Nord a Sud dell'Italia.

Tornando alla stanza numero 30 dice: "Non ho nostalgia, né rimpianti o rimorsi. È arrivata la pensione al momento giusto. Quando ho fatto il concorso in magistratura c'erano ideali, oggi non più. Il libro che ho scritto l'ho fatto per i miei figli, per i miei nipoti". Parla con tono sarcastico la Boccassini, ma fermo, e racconta fatti privati che si intrecciano con la sua carriera professionale come in occasione del trasferimento in Sicilia. "Non sono andata di mia volontà; mi chiamò il procuratore di Caltanissetta. Non fu facile, avevo due figli piccoli e tutti mi sconsigliavano dicendomi che non potevo abbandonare i miei figli. Ma alla fine dovevo essere io a decidere, e decisi di andare. Questo causò molte rinunce e anche la rottura del rapporto con il mio compagno. Sentivo però forte la responsabilità di trovare i responsabili delle stragi e così andai". Racconta delle differenze tra Milano e Palermo "di un Paese spaccato in due. A Milano c'era Mani pulite, un clima fra la gente forcaiolo mentre giustamente i magistrati facevano il loro dovere; giù c'era la guerra. A Palermo si viveva con i soldati per strade e con i sacchetti di sabbia. Ero alle prese con un mare di carte in un contesto isolato e con la scorta. Ma volevo finire quello che avevo iniziato".

Poi racconta dell'ultima telefonata con Falcone poco prima della strage. "Parlammo dell'inchiesta Duomo connection. Mi disse che avevo fatto un buon lavoro, di andare avanti. Quando ho saputo della bomba e della strage andai subito a Palermo, all'obitorio. Vi risparmio i dettagli. Non mi sono però fermata per i funerali. Altri, colleghi sono andati, hanno pianto ma prima lo avevano infangato".

Da Caltanissetta a Palermo. Dall'individuazione dei colpevoli della strage di Capaci a tentare di risolvere il caso Borsellino, chiamata da Caselli. "Lì - dice - non ce l'ho fatta perché credettero a Scarantino quando io invece dicevo altro e infatti poi uscì fuori Spatuzza".

Quindi il ritorno a Milano, chiamata da Saverio Borrelli che “mi convoca e mi dice il lavoro che c'era da fare". E così si occupa di Berlusconi "che mi attaccava attraverso i suoi giornali. Erano gli anni dal 1996 al 2004, con arresti di colleghi che facevano gli interessi suoi. Fu il periodo delle leggi ad personam per bloccare i processi. C'era un odio pazzesco nei miei confronti". Racconta Ilda e cattura l'attenzione della piazza, fino a spingersi a parlare della sua malattia autoimmune e del cancro alla tiroide della figlia, degli insulti sessisti. Parla del tentativo di far entrare “sacche di sangue infette” e di telefonate che le dicevano "ti facciamo fare la fine di Franca Rame, vittima di una brutale violenza sessuale". Delle minacce subite "che non erano solo i proiettili, quelli tanto li mandano a tutti, anzi a certi colleghi nemmeno quelli a Milano o a Palermo e anche qui". Lanciando frecciate, in sostanza, al protagonismo di taluni colleghi. "Ma chi uccide oggi un magistrato? È controproducente. Io - chiosa - sono stata sempre autonoma e indipendente. Ho avuto il privilegio di aver fatto come lavoro quello che volevo".

A. C.

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