La ricostruzione del sequestro di Giuseppe Bertolami, imprenditore rapito a Lamezia nel 1983

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di Claudia Strangis.

Lamezia Terme - C’è una parte di storia della città lametina che ancora rimane avvolta nel mistero: una storia quasi dimenticata, rimasta nell’ombra, una storia amara. È quella dei delitti insoluti, degli scomparsi, delle morti bianche, ma c’è anche quella dei sequestri di persona. Una storia che risale a più di quarant’anni fa, quando la criminalità organizzata decise di fare cassa e così, intraprese una strada che, a quei tempi, era considerata molto remunerativa. 

Figli o figlie, padri, madri, personaggi considerati in vista o facoltosi, che venivano strappati alla loro realtà familiare e tenuti in ostaggio da criminali che, per rilasciarli, chiedevano un riscatto per la loro libertà. Dagli anni ‘70 in poi, fino alla metà degli anni ‘80, questo fu considerato un modo “facile” per fare soldi. Soldi che poi furono reinvestiti in altri giri, come quella del traffico di droga. 

La ‘ndrangheta divenne una delle maggiori fautrici dei sequestri: il territorio, soprattutto dell’Aspromonte, si fece “custode” dei rapiti e, in alcune zone, furono coinvolte intere comunità. Fu una pagina di cronaca nera che coinvolse anche Lamezia: tanti i sequestri di persona in quegli anni, alcuni risolti con il ritorno a casa delle persone rapite, altri ancora avvolti nel mistero a distanza di tre decadi. Molti dei protagonisti dell’epoca non ci sono più, molti altri sono andati via da questa terra: e, seppur dolorosa, questa rimane una pagina della storia di questa città.

Un sequestro ancora avvolto nel mistero è quello di Giuseppe Bertolami: era il 12 ottobre del 1983 quando fu rapito. Trascorsero mesi di trattative, telefonate, lettere, minacce e anche sciacallaggio. La famiglia fece di tutto per poter riportare a casa il loro congiunto ma niente bastò. Giuseppe Bertolami non fece più ritorno e di lui non si seppe più nulla. Contrariamente a quanto avvenne per altri, che furono rilasciati, per lui le cose andarono diversamente e, intorno a questa storia, rimangono solo tantissimi dubbi e poche labili certezze. Rimane una famiglia che ancora aspetta di riavere un corpo e avere un posto dove poter piangere un padre, un marito, un fratello. 

Sul caso di Giuseppe Bertolami, titolare insieme ai fratelli di una florida azienda vivaistica lametina, ancora nessuna risposta certa, nessuna risoluzione: è calato un silenzio lungo trentacinque anni. 

La ricostruzione del sequestro

Erano passate da poco le 18 del 12 ottobre del 1983: Giuseppe Bertolami era da solo a bordo della sua auto, una Fiat 132 blu, era uscito da poco dall’azienda e aveva percorso pochi metri, quando fu sequestrato lungo la strada statale 18, al bivio che immette su una diramazione che conduce in località Palazzo. Fu lì, infatti, che fu rintracciata la sua auto abbandonata, nella quale non furono ritrovati evidenti segni di colluttazione. 

Ad avvisare le forze dell’ordine e i parenti fu un dipendente che, finito l’orario di lavoro, incrociò sulla strada proprio quell’auto abbandonata e, allarmato, li chiamò. 

Giuseppe Bertolami si stava dirigendo verso Nicastro dove aveva un appuntamento al quale, però, non arrivò mai. Il suo sequestro non ebbe alcun testimone. Aveva 58 anni all’epoca, sposato con due figli, Carmelo e Aurelia, era un imprenditore noto in città e insieme agli altri tre fratelli, aveva costruito una solida azienda florovivaistica. La famiglia era originaria di Mazzarà Sant’Andrea, un piccolo paese del messinese: l’azienda nella piana lametina divenne florida e stabile nella coltivazione di fiori e piante. Erano molto forti nell’export, anche all’estero, dove avevano molti contatti, ma si erano cimentati anche nella creazione di laboratori all’avanguardia per l’epoca, intraprendendo collaborazioni con diverse università, puntando su innovazione e sperimentazione. Tutta la famiglia aveva investito molto sull’azienda, e il sequestro fu una batosta per tutti loro. 

Appresa la notizia, le forze dell’ordine attivarono immediatamente servizi di controllo non solo a Lamezia e nell’hinterland ma in tutta la regione. Era una macchina rodata: purtroppo i sequestri erano tanti e frequenti. Solo qualche mese prima, nel gennaio dello stesso anno, un giovanissimo figlio di un industriale di Bagni di Tivoli, Fabrizio Mariotti, fu rapito e tenuto prigioniero a Lamezia da alcuni appartenenti alla malavita locale, a Lamezia per oltre sei mesi, liberato poi nel settembre di quell’anno, dietro il pagamento di un riscatto di un miliardo e 50 milioni di lire. I lametini erano quelli del clan Cerra-Torcasio. La famiglia, con base a Capizzaglie, aveva intrapreso, tra le altre cose, anche questo tipo di attività criminale. In particolare Nino Cerra si era inserito nel giro dei sequestri di persona: proprio tre anni prima di Mariotti si ritiene avesse avuto un coinvolgimento anche in un altro sequestro in Lombardia. Nel 1983 era latitante, ed era considerato vicino agli ambienti della malavita reggina, in particolare di Platì.

Partito l’allarme, allora, cominciò a mettersi in moto la macchina delle investigazioni per cercare di scovare qualsiasi elemento utile. Così partirono a raffica i controlli anche nei confronti di alcuni pregiudicati locali e non, che potevano, secondo gli investigatori, essere capaci di queste azioni. Ci furono perquisizioni e battute sul territorio senza, però, alcun esito. La telefonata dei sequestratori non tardò ad arrivare. Era un copione quasi già scritto: nella tarda serata del 17 ottobre, cinque giorni dopo il sequestro di Giuseppe Bertolami, ignoti chiamarono ad una persona vicina per motivi di lavoro, ai familiari, con l’incarico di dire ad Antonino Bertolami, fratello del rapito, di preparare quattro miliardi di lire. Fu indicata anche una parola d’ordine: “L’uva diventa mosto”, che sarebbe dovuta essere pubblicata sul quotidiano “La Gazzetta del Sud”. 

Questo fu solo il primo dei contatti con i familiari. Telefonate, lettere anonime, ma anche tanti sciacalli. Purtroppo i soldi della famiglia facevano gola a molti e, quella stessa famiglia, non solo costretta a vivere la tragedia del sequestro, la tragedia del non sapere cosa potesse accadere, dove potesse essere il loro congiunto, fu costretta anche a districarsi nelle notizie che, vere o false, giungevano sul sequestrato. 

La polizia, con il commissario dell’epoca, Antonino Surace e il sovrintendente Salvatore Aversa, seguirono da vicino la vicenda, erano in pianta stabile dai Bertolami: lavoravano in stretta collaborazione con l’Arma dei Carabinieri, le varie squadre Mobili e la Criminalpol. Seguirono i contatti, misero sotto controllo i telefoni, cercando di capire come smuovere la trattativa. Il copione dei sequestri era quasi sempre lo stesso: le indagini, però, non potevano concentrarsi esclusivamente su Lamezia. I rapitori potevano essere chiunque ed essere in qualunque luogo in Italia, così, oltre a continue perquisizioni in zone lametine come all’Annunziata, nel Reventino, in località Gaccia, e nella zona della piana di Sant’Eufemia, in abitazioni e casolari isolati, le ricerche si spostarono anche in Umbria, Lazio e Toscana. 

Le prime richieste di riscatto furono cifre esorbitanti: impensabili da poter pagare, ma la famiglia cercò di fare di tutto per mediare e trattare con i rapitori per risolvere il prima possibile e bene il sequestro. 

Dopo la prima telefonata ne arrivò una seconda, a distanza di dieci giorni, sempre ad una persona vicina alla famiglia ma mai alla famiglia stessa. Gli amici e colleghi dovevano diventare messaggeri delle intenzioni dei rapitori, in un quadro sempre più angosciante per la famiglia. A novembre, ancora richieste di contatti: arrivò una lettera che doveva essere consegnata al fratello di Giuseppe Bertolami, Antonino, che stava seguendo la faccenda da vicino. Una lettera contenente minacce gravissime e scritta in calcomania. Poi contattarono direttamente Antonino Bertolami: era la fine di novembre del 1983, quando i sequestratori chiesero se la somma richiesta fosse pronta. Un’altra lettera arrivò prima di Natale in cui venne scritto l’annuncio da pubblicare sempre sul giornale per indicare che i soldi erano pronti. 

Passò Natale e anche Capodanno: erano quasi tre mesi dal sequestro di Giuseppe Bertolami e la famiglia era sempre più trepidante per quel rapimento, che speravano potesse finire il prima possibile ma che alla fine si prolungò più del previsto. I primi giorni di gennaio ci furono altri contatti: i rapitori volevano un annuncio della famiglia in televisione con la cifra che erano disposti a pagare. Il 14 gennaio del 1984 fu, invece fatta recapitare una lettera a Carmelo Bertolami, il figlio di Giuseppe. Una lettera che era stata inviata da Vibo, nella quale c’erano le istruzioni per il pagamento della somma di due miliardi di lire. Erano passati tre mesi e la cifra del riscatto si era abbassata. Nella lettera, però, comparve anche uno dei primi segnali che Giuseppe Bertolami era ancora vivo. C’era anche un foglio, infatti, scritto proprio dal sequestrato con un ritaglio di giornale datato 12 gennaio con la sua firma. Era la prova tangibile del fatto che fosse vivo: erano queste le classiche modalità usate dai rapitori per avvertire la famiglia dell’incolumità delle vittime. 

Da gennaio, i contatti proseguirono fino ad aprile: si era arrivati ad un accordo. Il 19 aprile del 1984, i familiari di Bertolami fecero pubblicare un annuncio che era diretto ai rapitori nel quale si diceva che “era pronta una stecca per il quadro di Sant’Antonio”, che stava ad indicare che era pronto il miliardo di lire per il pagamento del riscatto. Quella sera stessa, i rapitori telefonarono ad una persona vicina alla famiglia che avrebbe dovuto comunicare loro il da farsi. 

I tre percorsi per consegnare il riscatto

Sembrava che tutto potesse risolversi nel migliore dei modi: la famiglia avrebbe pagato la cifra pattuita per rivedere il loro congiunto. Ma c’era ancora da fare: il figlio di Bertolami, Carmelo, avrebbe dovuto compiere, come indicato dai sequestratori, tre percorsi diversi, per tre sere consecutive, seguendo dettagliatamente le indicazioni. Doveva mettersi alla guida di una 126, con sopra due valigie. In un percorso avrebbe dovuto percorrere la statale 18 dall’azienda fino a Reggio, poi sempre da Lamezia, arrivare a Soverato passando dalla strada delle Serre, e l’ultimo percorso sarebbe stato quello da Lamezia fino a Lagonegro, passando dall’autostrada. L’ipotesi più accreditata era che il rilascio di Bertolami sarebbe avvenuto la terza sera.

Carmelo Bertolami avrebbe trovato un'auto che gli avrebbe lampeggiato per farlo fermare e consegnare il denaro. E così partì per il primo percorso: erano le 19:40 del 20 aprile. Erano stati stabiliti alcuni servizi di avvistamento da parte delle forze dell’ordine, lungo la statale e anche l’autostrada, un particolare che non sfuggì ai rapitori. Quando il secondo giorno Carmelo Bertolami era in procinto di partire, partì la seconda telefonata da parte dei rapitori per avvisare di stoppare qualsiasi cosa perché erano seguiti. Da allora, il silenzio. E di Giuseppe Bertolami, nonostante i ripetuti e disperati appelli dei familiari, non si è saputo più nulla.

L’ultima prova del fatto che fosse in vita, risale al febbraio del 1984, quando fu recapitata una lettera con il solito foglio di giornale firmato, dopodiché la famiglia è rimasta in balia dei dubbi e sospesa. Negli anni successivi ci furono altri contatti: ma erano soltanto sciacalli che cercavano di speculare su una triste vicenda. 

Le ipotesi investigative

Tante le ipotesi degli investigatori: a compiere il sequestro potevano essere stati pregiudicati di altra zona, con molta probabilità della zona di Reggio, con basisti del luogo. Erano stati notati, nelle sere precedenti, alcuni movimenti strani con persone a volto scoperto ferme in macchina nei pressi della azienda.

Gli occhi delle forze dell’ordine erano puntati su Nino Cerra, sul quale già pendeva un mandato di cattura emesso dalla Procura Milanese per concorso in sequestro di persona, oltre ad un altro mandato di cattura, stavolta da Roma, per il già citato sequestro di Fabrizio Mariotti. Cerra, secondo le ipotesi investigative, era legato ad altri gruppi criminali calabresi, soprattutto con quelli del reggino, in particolare la zona di Platì con i quali Cerra avrebbe avuto legami, quindi il quadro degli inquirenti si andava concentrando su questo, anche se non ci furono mai riscontri certi. Si ipotizzò un suo possibile coinvolgimento insieme ad Antonio De Sensi, ucciso il 27 aprile del 1984.

Una delle ipotesi, secondo gli investigatori e la procura lametina, era che proprio il De Sensi sarebbe stato a conoscenza del sequestro e che avrebbe preteso di partecipare alla gestione e alla spartizione del riscatto, pretese che probabilmente avrebbero scatenato incomprensione tra i due. I contrasti, la sua morte e l’arresto di Nino Cerra, avrebbero determinato, secondo una delle ipotesi investigative, la mancata riscossione del riscatto. Secondo gli inquirenti, probabilmente il gruppo dopo questi avvenimenti non avrebbe saputo gestire il sequestro. 

Ma queste rimangono solo delle supposizioni, perché non esistono prove, il corpo vivo o morto di Giuseppe Bertolami non è stato mai trovato né riconsegnato alla famiglia, che, dopo 35 anni, aspetta ancora la sua verità. 

Le indagini, seppur incanalate su una pista, che pareva essere la più probabile, si conclusero in un nulla di fatto e non ci furono né arresti, né processi. 

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Gli appelli incessanti della famiglia

Non si sono mai arresi e hanno continuato a chiedere di riavere il loro congiunto. L’hanno fatto per anni, anche fino a poco tempo fa. Hanno convocato giornalisti, hanno smosso Procure e forze dell’ordine in cerca di una qualsiasi verità su Giuseppe Bertolami. Nel 1992, sembrava che potesse essersi smosso qualcosa. Un pentito della locride avrebbe indicato dove potesse essere il corpo di Giuseppe Bertolami, così era partita l’operazione di scavo e ricerca in un uliveto. A guidare le ricerche c’era il procuratore di Palmi Agostino Cordova, poi il sostituto procuratore di Locri, Nicola Gratteri, e il sostituto di Lamezia Luciano D’Agostino. Sul posto, a seguire i due giorni di scavi, anche il figlio di Giuseppe, Carmelo, ma anche questa speranza cadde nel vuoto e il corpo non fu mai trovato. 

Carmelo Bertolami: “Per me è inconcepibile privare della propria libertà una persona”

“Per due anni siamo stati in balia degli eventi. Il sequestro ci ha completamente assorbito e ha dato un duro colpo alla nostra famiglia e all’azienda”. Carmelo Bertolami, uno dei due figli di Giuseppe, ricorda ancora vividamente quei momenti che, come ripete, non riuscirà mai a cancellare. Aveva trentatré anni, lavorava nell’azienda di famiglia e, come racconta, seguiva spesso gli affari all’estero, viaggiando e mantenendo i contatti soprattutto in Algeria e paesi del Medioriente. 

Racconta di come fosse una situazione del tutto nuova, una mannaia caduta sulla sua famiglia che, naturalmente, ha sconvolto le vite di tutti. “In casi come questo qualsiasi cosa si faccia si sbaglia, sono situazioni ingestibili” ci spiega, ricordando quei momenti terribili. Una intera famiglia lasciata in sospeso, con il dolore che diventa una angoscia insostenibile, cercando di mediare con persone senza scrupoli, aspettando notizie sul loro congiunto e cercando di mantenere i fari puntati sulla vicenda. 

“Ogni anniversario – racconta – così come ogni volta che passo davanti a quel bivio, mi pervade una fortissima angoscia”. Perché questa è la parola per definire il terribile senso di attesa, l’attesa di una notizia positiva che però, allora, come oggi, ancora non è arrivata. Avevano già intuito all’epoca come potessero essere andate le cose, ma rimaneva la speranza di poter riavere il corpo “per potergli portare – sottolinea - almeno un fiore e rendergli omaggio”. Ma questo, fino ad oggi, non è stato possibile. In verità, come ci ha spiegato il figlio Carmelo, Giuseppe Bertolami risulta ancora vivo e non sarebbe stata dichiarata la morte presunta. 

“Ciò che per me è inconcepibile, - spiega - è privare della libertà una persona. Questa – conclude il figlio –  è una cosa che non riuscirò mai ad accettare o perdonare”. 

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