L'analisi di Gerardo Mancuso, vicepresidente della Società Italiana di Medicina Interna: "Misure coerenti per una nuova sanità"

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Rimini - Tra la crisi delle ‘vocazioni’ sanitarie e gli episodi di violenza ai danni di medici e infermieri, nei reparti e al pronto soccorso, la sanità pubblica è sempre più in crisi. L’analisi del dottore calabrese, Gerardo Mancuso, vice-presidente della Società Italiana di Medicina Interna (SIMI), in occasione del congresso nazionale della Società scientifica che si è tenuto nei giorni scorsi a Rimini. “Medici e infermieri – sostiene - sono sempre più i punchball della rabbia dei cittadini, la prima e più vulnerabile interfaccia di una sanità sempre più inadeguata a dare le risposte attese. Ma si tratta di un fenomeno non del tutto nuovo”.

“Nel 2020 il Ministero della Salute ha istituito un Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti delle professioni sanitarie con lo scopo di monitorare il fenomeno e promuovere delle garanzie.  Sulla base di questa attività, nel 2023 sono stati registrati 16.000 casi di violenza (2/3 di tipo verbale, il 26% di tipo fisico) ai danni degli operatori sanitari. Quelli maggiormente interessati da episodi di violenza sono stati gli infermieri per il 69%, seguiti dai medici e dagli operatori socio-sanitari e in due casi su tre la violenza è stata perpetrata ai danni di donne ad eccetto del Sud Italia dove prevalgono i casi di violenza sui maschi. L’età delle persone aggredite è sotto i 50 anni e gli ambienti più a rischio sono il pronto soccorso, i servizi psichiatrici e poi i reparti di degenza. Nel 70% dei casi ad aggredire è stato il paziente, nel 28% i parenti”. Contrariamente a quanto si possa pensare, le Regioni più interessate sono quelle del Nord (soprattutto la Lombardia). Le conseguenze di questi atti di violenza, oltre a quelle di ordine fisico, sono la comparsa di sintomi depressivi, di burn-out e la perdita di serenità sul lavoro, che può impattare sulle performance medico-infermieristiche.

“I trigger – prosegue - più evidenti di questa ondata di violenza ai danni degli operatori sanitari sono: il sovraffollamento del pronto soccorso, che vicaria sempre più spesso attività non pertinenti, manca un adeguato follow up delle malattie sul territorio ed i pazienti non trovano punti di riferimento fuori dall’ospedale. Ma anche la carenza di personale sanitario che negli ultimi 8 anni ha interessato soprattutto l’ospedale con una contrazione di circa 12.000 medici e 20.000 infermieri con una contrazione di specialisti internisti del 12%. Questo contribuisce a determinare l’allungamento delle liste d’attesa la pretesa la Pronto Soccorso di una valutazione clinica immediata anche indipendentemente dal codice del triage di assegnazione. Una situazione ben evidente alla maggior parte dei dipendenti del SSN che, interrogati in merito a quali potessero essere le principali cause del fenomeno-violenza, hanno indicato il definanziamento del SSN e la carenza di ordine organizzativo che colpisce l’ospedale”.

Cosa fare dunque? “Di recente il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto legge n. 137 (settembre 2024) che agisce su due fronti. Il primo è la modifica dell’articolo 635 del Cod. Penale che stabilisce che questi comportamenti siano puntiti con una reclusione fino a 5 anni e una multa fino a 10.000 (ma se il reato viene agito da diverse persone, la punizione si aggrava); l’altra modifica riguarda gli articoli 380 e 382 bis del Codice di Procedura Penale che prevedono l’arresto in flagranza o in differita di chi ha commesso il reato. Il terzo punto inserito nel DL è che, nella prossima finanziaria saranno destinate risorse economiche per la videosorveglianza degli ambienti di lavoro”.

Può bastare l’effetto deterrente della legge ad arginare gli episodi di violenza contro il personale sanitario? Per Mancuso: “Si tratta di un fenomeno complesso che non si può affrontare solo con una legge, per quanto condivisibile dal punto di vista tecnico. Questi episodi sono anche espressione delle difficoltà che sta attraversando il SSN, difficoltà che riguardano i numeri, cioè la contrazione delle risorse umane, il definanziamento del SSN, quindi l’impossibilità di accedere con facilità alle attività diagnostiche e terapeutiche che il paziente si aspetta di ricevere. Si tratta peraltro di criticità che non riguardano solo l’Italia, ma che sono più o meno diffuse in tutti i Paesi europei. A questo va aggiunto un diffuso atteggiamento di aggressività delle persone caratteristico dei nostri tempi, derivante anche da una crisi generale dell’equilibrio “psicologico” individuale. Una sanità in burn out dunque da parte di chi è già dentro il sistema e sempre meno attrattiva per le nuove leve, come racconta la storia delle tante borse di specializzazione che vengono assegnate in seguito al concorso annuale”.

“Le cause di questo fenomeno – evidenzia ancora - sono tante e vanno ricercate nei carichi di lavoro eccessivi, negli stipendi inadeguati al costo della vita ma soprattutto al tipo di responsabilità e di impegno che il lavoro di medico e di infermiere comportano, nelle difficoltà di carriera. Lavorare in ospedale in Italia oggi significa una vita di grandi sacrifici per uno stipendio che è inferiore fino al 40% rispetto ad altri Paesi europei, come la Francia. Ma differenze importanti si riscontrano anche tra il Nord e il Sud d’Italia; chi lavora in un ospedale del Nord-Est guadagna molto di più che in quelli del Sud e questo genera una migrazione di personale medico e infermieristico che va ad impoverire sempre più il SUD. I giovani medici sono meno attratti dalla sanità pubblica e lo dimostrano due dati su tutti: la riduzione del numero di specializzandi in medicina interna (quest’anno è stato coperto solo il 79% dei posti di specializzazione) e in chirurgia generale (assegnato solo il 80% dei posti di specializzazione). Queste due specialità, molto ambite e ritenute prestigiose in passato, oggi risultano sempre meno attrattive per i giovani. Se il trend in futuro sarà confermato avremo sempre meno specialisti in Medicina Interna ed I 1.050 ospedali italiani dove attualmente insistono i reparti di Medicina Interna saranno destinati al ridimensionamento. La competenza non è un valore relativo, i settori privati conoscono bene che questa fa la differenza. Assumere medici non specialisti non è una opzione, impoverisce il tessuto professionale e la qualità delle prestazioni. È necessario una presa di coscienza delle autorità decisionali sui cambiamenti a cui stiamo assistendo, per mettere in sicurezza l’assistenza sanitaria del futuro per non dover piangere sul latte versato”.

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