“I penultimi contro gli ultimi”. Quale soluzione?

Scritto da  Pubblicato in Pino Gullà

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Alcuni abitanti di Tor Sapienza, periferia romana, non vogliono più il Centro d’accoglienza “Il sorriso” dove sono stati ospitati diversi richiedenti asilo, i disperati del Terzo Millennio. Nei giorni scorsi hanno urlato in continuazione: “Se ne devono andare”. In romanesco. Durante i servizi televisivi ci è sembrato di vedere Pasolini che si aggirava tra la folla. Visioni e/o allucinazioni. Chissà cosa avrebbe scritto. Il quartiere, alquanto degradato, ha manifestato intolleranza verso immigrati e rifugiati. “I penultimi contro gli ultimi (arrivati)”, abbiamo letto in alcuni giornali. Paginate su paginate con interviste, analisi e approfondimenti. Ugualmente dibattiti e discussioni nelle tv, pubbliche e private. Non è finita. I mass media continuano ad occuparsene. Il fatto più triste è stato il trasferimento in altre cooperative sociali dei ragazzi orfani, privi di reti affettive e amicali. Soli. Sono rimasti per poco tempo nella nuova sede. Pare siano fuggiti per tornare a Tor Sapienza perché lì si trovano gli unici legami rimasti.

Nonostante queste note, negative e sconfortanti per il vivere civile, ci consola qualche aspetto diverso della preoccupante vicenda: i manifestanti hanno tenuto lontani rappresentanti politici di movimenti antisistema ed identitari. Questi avevano tentato di far visita forse con l’intenzione, malcelata, di strumentalizzare elettoralmente un fatto così grave di abbandono e di razzismo difensivo, ma hanno ottenuto soltanto qualche comparsata davanti alle telecamere. Quando è arrivato il sindaco Marino, è stato contestato. Addirittura alcuni esponenti del suo partito hanno preso le distanze (strumentale anche questo?). Poi, invitato da Annunziata nella trasmissione televisiva “In ½ ora”, ha parzialmente recuperato nel “faccia a faccia” con la delegazione di Tor Sapienza. Ancora meglio nel successivo incontro in Campidoglio, solamente un po’ di contestazione da parte di alcuni intervenuti. Dallo scontro si è passati, con una certa difficoltà, all’incontro, come auspicava giorni fa Papa Francesco, diventato ormai tra  “i nostri politici” più lucidi del difficile momento che stiamo attraversando.

Tale fatto di cronaca, insieme ad altri episodi correlati, ci angoscia e non poco. Stando così le cose, analisi, riflessioni e soluzioni sono urgenti perché l’imbarbarimento sociale delle periferie esiste a Roma, e in altre grandi città, al di là della presenza degli immigrati (capri espiatori). Gli abusivi (italiani e non) nelle case popolari milanesi e gli scontri con le Forze dell’ordine sono episodi significativi di problematiche sociali complesse, quasi in metastasi. Qualcosa di simile, anche se con modalità e dinamiche diverse, l’abbiamo visto, alcuni anni fa, al di là delle Alpi. Nel 2005 ci fu la rivolta delle banlieue (sobborghi) francesi, protagonisti i giovani nord africani e gli immigrati in genere. In quella circostanza cadute di stile e parole razziste dei politici transalpini. Riportiamo da Wikipedia: “Sarkozy [in quegli anni ministro degli Interni], riferendosi agli abitanti delle banlieue, usò la parola racaille (feccia)”. In precedenza aveva manifestato l’intenzione di attuare la sua politica di “tolleranza zero” e che si sarebbe sbarazzato “dei rifiuti e delle  canaglie”. Corre l’obbligo sottolineare che altra sensibilità ha mostrato Marino a Tor Sapienza, pur con i suoi limiti di cui hanno scritto i giornali. Allo stesso modo Alfano, fermo restando la storia diversa dei due Paesi. La rivolta delle periferie francesi ha fatto la fortuna elettorale del Front National. Tuttavia, dopo i fatti del 2005, a Saint Denis (dipartimento con la più alta concentrazione di stranieri in tutta la Francia, circa il 30%), dove si scatenarono i tumulti, lo Stato francese ha realizzato un progetto di riqualificazione urbana per collegare centro e periferia. In tal modo si è concretizzata l’integrazione. Ecco, nella fattispecie delle banlieue, la soluzione del problema sociale.

Per dirla alla Bauman, il sociologo della modernità liquida, la mixofobia (la paura di una qualsiasi unione di persone di diverse credenze o diverso gruppo) si è trasformata in quel caso in mixofilia (la tendenza a mescolarsi all’altro). In realtà le città esprimono entrambe le dinamiche suddette. Lo studioso polacco ne “Lo spazio della paura” cita Nan Ellin, ricercatrice delle nuove tendenze urbane, e Stev Flusty, critico dell’urbanistica contemporanea, entrambi statunitensi. La prima evidenzia “la popolarità delle comunità recintate e sicure (…) e la sempre maggiore sorveglianza degli spazi pubblici, per non parlare degli interminabili servizi televisivi sui pericoli trasmessi dai mass media”.  Il secondo fa notare la progettazione di metodi per sbarrare a malfattori effettivi l’accesso agli spazi nelle città americane. Sono gli spazi d’interdizione: “Le vie contorte, prolungate o mancanti”; lo spazio pungente: “Le bocche degli idranti, le sporgenze a scivolo per impedire di sedersi”; lo spazio stressante: “Le pattuglie di ronda e le tecnologie di controllo a distanza”. Questo modo di costruire le città provoca da una parte segregazione, intolleranza e razzismo; dall’altra “comunità di simili” che (esagerando) ricordano la razza ariana di hitleriana memoria. Improponibile nel mondo odierno, multietnico in quasi tutte le latitudini. Le soluzioni sono, al contrario, il collegamento tra centro e periferia, gli spazi condivisi, le occasioni d’incontro favoriti dalla politica attenta alle problematiche sociali. Come è successo a Saint Denis. Un esempio di buona politica. Un’operazione simile si potrebbe fare a Tor Sapienza (e nelle altre periferie del mondo metropolitano), con l’apporto dell’urbanistica rispettosa della comunità multietnica. Liberiamo la buona politica che si avvale delle competenze.

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