Lamezia in recessione

Scritto da  Pubblicato in Giovanni Iuffrida

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Iuffrida_matitadi Giovanni Iuffrida

Mentre il Partito democratico sfoglia la margherita “Renzi-Bersani”, la recessione italiana si fa più dura, accelera in velocità e colpisce dove fa più male. Non è solo il dato del secondo trimestre in quanto tale a preoccupare, con una caduta del Pil dello 0,7% congiunturale e del 2,5% su base tendenziale, cioè proiettata sull’anno. Lamezia, cuore pulsante della guerra di ’ndrangheta in Calabria, è un esempio dove l’urbanistica è da tempo una mera esercitazione di policromia che, nelle sfumature dell’esagerazione del verde (pubblico) evidenzia, sulle tavole dei nuovi piani, non solo la crisi economica in atto ma la crisi di idee e, soprattutto, della cultura del progetto di città. Una grande responsabilità di questo vuoto è addebitabile alla debolezza strutturale del Partito democratico, che si distingue con difficoltà dalle politiche locali di stampo berlusconiano del PdL.

A Lamezia, infatti, dopo una lunga fase di sperimentazione che ha visto la città rapinata degli spazi liberi necessari ai servizi pubblici, come avrebbe imposto lo studio delle condizioni di fatto del territorio, il disegno urbano, in questo clima populista proteso a favore di cuoche e ragionieri, registra – al di là degli slogan antimafia – una totale subordinazione della città pubblica al privato. Una città dove i colletti bianchi delle professioni tecniche costituiscono l’anello forte della mafia locale, senza che le istituzioni riescano a individuare l’individuabile: la connessione tra professionisti e gruppi inquinati che detengono da anni il potere economico e sociale della città.

Tutte le discussioni in corso (peraltro poche in verità, nonostante sia in via di definizione l’elaborazione del Piano strutturale comunale) sono incentrate non sul disegno complessivo della città futura ma, come spesso accade quando si trattano interessi economici forti, sui dettagli. In questo contesto le domande ricorrenti, nell’ambito della partecipazione attiva dei cittadini, sono quelle immaginabili per una terra da sempre “illuminata” dalla cronica mancanza di senso civico e dal pensiero ’ndranghetista: “Quanto posso costruire nel mio giardino? Quanti vincoli di inedificabilità ci sono, invece, nel giardino del mio vicino?” È questo modo di vedere le cose il frutto della mammasantissima partecipazione di stampo calabrese, grazie ad una legge urbanistica regionale che comincia ad essere applicata dopo ben dieci anni dalla sua entrata in vigore, come la peggiore calamità per il territorio. Basti pensare – sempre a livello regionale – alla massima espressione del civismo politico calabrese ben rappresentata dalla seconda famigerata legge sul Piano casa, pronta a trasformare radicalmente il territorio, in barba ai principi di tutela del paesaggio rurale e urbano assicurandosi il consenso delle mafie che, non conoscendo alcuna sorta di crisi, ringraziano, senza che blasonate amministrazioni di sinistra abbiano mosso un dito per contenerne gli effetti negativi. Ma, si sa, le elezioni sono vicine; e costano.

A Lamezia, preda del neoliberismo più sfrenato, l’urbanistica è stata da tempo “bandita” e non registra un livello di salute tranquillizzante per il futuro (per il territorio e per la cultura della città). Il territorio è visto dal Partito democratico locale come un’immensa riserva di voti e perciò il “disegno” del suo sviluppo è la sommatoria algebrica degli interessi dei singoli rastrellati attraverso il sistema dei “bandi di interesse”: così la strumentazione urbanistica di nuova generazione (se si può parlare di urbanistica) non ha un ruolo guida e il suo contenuto è un mosaico scoordinato affidato essenzialmente all’iniziativa (alla graticola, stando alla simbologia utilizzata) dei più intraprendenti “prenditori” in rappresentanza di tutti i partiti politici. In altre parole: i nuovi modelli di piano sono disegnati, nel filone della demagogia partecipativa, dalle proposte della proprietà fondiaria. I nullatenenti, gli ultimi di don Lorenzo Milani, sono stati e sono completamente esclusi e non hanno, pertanto, il riconoscimento di alcun diritto sul disegno della città, nemmeno con i “retini” di antica memoria urbanistica. E’, questo, un modello urbanistico del credito fondiario di nuova generazione, improntato al sistema bancario calabrese, che funziona più o meno così: se non hai immobili in dotazione, non ti concediamo alcun credito, né economico, né partecipativo, né genericamente sociale da sacrificare sull’altare della crisi economica in atto.

Su questi aspetti Edoardo Salzano è stato abbastanza lapidario: per i costruttori di questo tipo di città “il territorio è considerato e utilizzato come lo strumento mediante il quale accrescere la ricchezza personale; di quella classe il cui ruolo sociale e il cui contributo allo sviluppo della civiltà sono costituiti esclusivamente dal privilegio proprietario”. In questo contesto, il sistema perequativo – condiviso fortemente dal Partito democratico – è articolato secondo indici di utilizzazione territoriale che tengono conto della rendita di posizione ed è incentrato sull’obiettivo di realizzazione (sulla base di un inesistente bisogno collettivo specifico) di un esteso corollario di aree verdi, ad integrazione di un immenso, costosissimo quanto inutile, esistente sistema di parchi urbani ed extraurbani (per complessivi 3.642.839 mq, pari a un impressionante 51,63 mq per abitante); non dimenticando, poi, il “verde agricolo”, cioè la campagna ormai dentro la città. Di contro a un quadro dei servizi che fa evincere un inesistente standard dei parcheggi (0,1 mq/ab) e una modesta condizione degli spazi attrezzati e di quelli utilizzati per l'istruzione dell'obbligo. Mancherebbero all’appello, per esempio, ben 170.856,22 mq di aree funzionali da destinare a parcheggio pubblico, per  fare di Lamezia una città normale sul piano delle mere quantità. Per non parlare poi del problema della qualità urbana, che richiederebbe al Partito democratico un amore per la città che le elezioni in preparazione non consentono, per le attuali logiche di intercettazione del consenso, di esprimere in modo adeguato.

Larenile-lametinoL'arenile lametino. Un intervento auspicabile

Rispetto a questi temi e alla razionalizzazione del sistema infrastrutturale della mobilità, la mancanza di una dettagliata articolazione di soluzioni urbanistiche per comparti significativi della città è l’elemento di maggiore caratterizzazione critica della strumentazione urbanistica (la città avrebbe bisogno di indicazioni decisive per i bisogni di prima necessità, quale una nuova trama viaria, parcheggi pubblici adeguati, ecc.). Invece, la scelta del permesso a costruire singolo, che è la nuova “ideologia” di attuazione del Piano rappresenta la perfetta negazione della necessità di dare ordine a quei pochi spazi urbani liberi che una politica edilizia dissennata ha reso sempre più asfittici. Del resto – come ha spiegato Edoardo Salzano –, in questi modelli urbanistici gli spazi per la collettività sono sempre più ridotti e subordinati alla città della rendita, praticando la riduzione degli spazi pubblici  e la loro privatizzazione. Senza poi tener conto di quello che uno dei più puri intellettuali rimasti in circolazione – Piero Bevilacqua – ci ricorda: il territorio dovrebbe essere visto, e usato, come un elemento essenziale della vita presente e futura della società, perché è l’habitat dell’uomo e di altre specie animali e vegetali.

Ma c’è di più. Nel quadro del populismo demagogico semplificatore, frutto del clima della crisi economica, nelle politiche urbanistiche del Partito democratico, trova ampio spazio un condono edilizio comunale, tutto fatto in casa e che apre la strada, collocandosi al di fuori del quadro normativo nazionale, a sanatorie generalizzate degli abusi sulla falsariga del berlusconismo di periferia; mettendo così a nudo l’obiettivo di costruire una città da far governare, dal 2013, dalle cuoche di Lenin e dai ragionieri di Guglielmo Giannini. Del giustizialismo autentico, invece, a Lamezia non c’è traccia dal 1992 (dall’omicidio di due netturbini per mano della ’ndrangheta); e finanche la scatola vuota del Tribunale, recentemente salvato dal governo Monti, è la negazione di una giustizia giusta. Forse anche per questa ragione, Lamezia non decolla né per moralità, né per legalità e, di conseguenza, nemmeno per qualità urbana e territoriale.

Di contro, la strumentazione urbanistica proposta dal Partito democratico, che sembra rimanere in attesa di soluzioni statali o regionali per la tutela delle risorse idriche pubbliche e dell’insediamento della comunità locale di etnia rom, non tiene conto, in questa lunga crisi economica, degli alti costi sociali che impone una città diffusa e senza fine qual è quella che propone di fatto attraverso l’applicazione delle norme codificate dal Regolamento edilizio e urbanistico, braccio armato contro quel poco che è rimasto del paesaggio urbano e rurale storico. Un territorio, quest’ultimo, considerato “suolo in attesa di urbanizzazione” con grande vantaggio per il consenso elettorale immediato ma con grave danno per il futuro delle nuove generazioni. Non è un caso se la possibilità generalizzata di poter edificare in zona agricola su 15.000 mq di superficie fondiaria – con costi di acquisto molto vantaggiosi – incoraggia soltanto la città diffusa, comportando gravi conseguenze sui costi sociali derivanti.

Con un aggravante: una premialità aggiuntiva agli abusivisti di professione derivante evidentemente da una analisi sbagliata del fenomeno dell’abusivismo. In concreto: nei nuclei edilizi individuati come “insediamenti diffusi”, dove nel tempo si sono esercitate tutte le tipologie di abusivismo possibile, è data l’ulteriore possibilità, lungo la “filiera produttiva” dei passaggi di proprietà delle aree, di completare il peccato urbanistico originale (la lottizzazione abusiva). Questo forse in nome di un malinteso cristianesimo urbanistico contemporaneo che scorre nelle vene asfittiche del Partito democratico locale.

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