I calabresi sono anime nere?

Scritto da  Pubblicato in Giovanni Iuffrida

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Sono in molti a sostenere che nei confronti dei calabresi esista addirittura un razzismo biologico, per colpa di Cesare Lombroso. A condividere questa posizione ci sono intellettuali che, ovviamente, fanno proprie le ragioni del Partito del Sud.
Certamente le generalizzazioni non corrispondono mai alle molteplici sfaccettature di una realtà complessa, qual è quella calabrese. Del resto da Tommaso Campanella a Vito Teti, passando da Corrado Alvaro a Saverio Strati, la regione ha anche generato menti illuminate che ancora oggi le danno lustro e che fanno parte di quel caleidoscopio, comunque straordinario, che è stata la Calabria in termini naturali, in senso lato.
Detto questo, nella “Relazione della provincia di Calabria e dello stato di essa nel temporale” del XVII secolo, attribuita al vicario apostolico Agazio Di Somma ed oggetto di una recente pubblicazione di Pietro De Leo, si ripropone un'immagine, non per mano piemontese, utile a proposito della realtà antropologica della Calabria in ottica culturale: “Gli huomini del paese in generale sono di natura feroce, di costumi rozzi, vaghi di novità, precipitosi all'ira, subiti alla minaccia, risentiti nelle offese, crudeli nelle vendette artificiosi nella falsità, pronti all'adulazione, facili alle calunnie, inchinati alle frodi, incostanti ne' propositi, fallaci nelle promesse, superbi, vantatori, loquaci, buggiardi, astuti et invidiosi ... I più fanno stima dell'honore [...] e per la vivacità dell'ingegno sono capaci di ogni buon'arte, se loro vi si aggiunge cultura e disciplina”. Una posizione critica che indica anche delle prospettive in chiave positiva.
Annarosa Macrì, nota giornalista calabrese, intervenendo a proposito delle reazioni suscitate dal film di Francesco Munzi, risponde così ai soliti calabresi affetti da antipiemontismo fuori stagione: “Anime Nere è un film sul male storico e antropologico di un pezzo del Sud che è la Calabria. [...] è un film per la Calabria e contro la mafia, più di mille annoiati convegni, di mille inutili cortei, di mille ben foraggiate associazioni antimafia”. Infine, così conclude: “Ci voleva un film per dire al mondo quale inferno è la Calabria?”. Evidentemente, sì, perché non era bastato nel '92 Giorgio Bocca a ricordarcelo in un suo libro dal titolo “L'inferno. Profondo Sud, male oscuro”, né basta Goffredo Fofi a fare presente che il film di Munzi “racconta una terra senza possibile riscatto”.
Detto questo, qual è il problema di fondo? Se i calabresi (gli intellettuali, soprattutto) continuano a “rivendicare il diritto” di essere vittime di qualcuno o di qualcosa, e delle “grandezze” usurpate, la Calabria non potrà mai uscire dal suo inferno reale se si tacciono altre (più gravi) verità.
Nelle sue profezie politiche, Michele Murgia su “Il Sole 24 Ore” del 21 settembre scorso (che fatidicamente segna un passaggio di stagione) ha sottolineato che “è attraverso le lotte dei deboli che le società cambiano e crescono perché i forti non hanno interesse alcuno a modificare lo stato delle cose”.
E allora: se gli intellettuali antipiemontesi vogliono fare qualcosa di utile per gli indeboliti calabresi (per le usurpazioni subite o, se si vuole, perché indeboliti nell'immagine dai resoconti dei “viaggi” antropologici del passato, ma che oggi si stanno autonomamente vendicando succhiando tramite 'ndrine ben organizzate una fetta dell'economia del Nord), dovrebbero aiutare i calabresi a tirar fuori “la loro natura feroce”, quale strumento di lotta politica per la rigenerazione della società, innestandola sui loro stessi bisogni.
È l'unico modo, questo, perché domani un altro Munzi possa fare un film sulla Calabria con un titolo (e un  contenuto) che possa infastidire di meno la folta e sensibile schiera di intellettuali che “per” la Calabria dovrebbero coltivare, invece, la profezia politica che indica nel riconoscimento della debolezza/fragilità la chiave di volta del riscatto.

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