Lettera di una rovina al prof. Settis

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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francesco_bevilacqua-12192017-090049.jpgCaro Salvatore, mi scuserai se ti do del tu. Ma ho mille anni di vita, e per me sei come un figlio. Ti ho atteso tanto: finalmente sei tornato! Si, lo so che non eri mai venuto qui, in questo luogo preciso. So, però, che sei stato al capezzale di tante mie sorelle, le altre rovine del mondo. Vedi, sono stata costruita quando le cose erano fatte per durare, non per scadere, passare di moda, crollare. E sono ancora qui, nella valle del Corace, dove il corvo (corax) gracchia incessante, taglia il cielo con la sua sagoma scura come la lancia di un guerriero. Tra i giovani figli di castagni ultracentenari, cerri, ontani, pioppi, abbattuti dalla protervia degli umani.

Gli umani, Salvatore, creano, innovano, danno la vita… Io stessa ne sono un esempio. Ma gli umani sono anche dispensatori di distruzioni e di morte. Ferocia territoriale, furore distruttivo, iconoclastia culturale: gli umani stessi definiscono in tanti modi curiosi questo loro istinto di morte, questa loro ossessione di cancellare il passato. Ci hanno provato anche con me, sai. E con tante altre rovine, che, a differenza di me, oggi si trovano sepolte in una bara di cemento. Il cemento è lo strumento creativo in assoluto più amato dagli umani, e dagli umani italiani in particolare. Tu ne sai qualcosa, perché quella parolina, “cemento”, l’hai giustamente inserita nel titolo di un tuo famoso libro sul paesaggio italiano. Nel mio caso è diverso. Per secoli, pur non avendo sparso cemento su di me, gli umani mi hanno ricoperta di oblio! Io, l’abbazia di Corazzo, sono stata cancellata dalla memoria degli uomini. Anche di quegli uomini che vivevano accanto a me. Pastori passavano, sino a qualche decina d’anni fa, per i pingui pascoli del Corace, osservando distratti i miei muri sberciati, soffocati dall’edera. Per loro ero un segno, il simbolo di qualcosa di grande e di antico, su cui raccontare fiabe, alla sera, dinanzi al camino. Poi, scomparsi i pastori, scomparsi i boscaioli, scomparsi i contadini, i pellegrini, i viandanti, gli acquaioli, i mannisi… sono scomparsa anch’io. Benché le mie rovine fossero ancora lì, ben visibili sui prati madidi di rugiada della valle. Eppure, fra i miei ambulacri avevano trovato ricovero tanti umani, alcuni dei quali proprio fra queste mura concepirono meravigliose opere del pensiero.

Rovine, così ci chiamate nel vostro linguaggio. Ma per molti siamo solo macerie. I due termini, come sai, non sono affatto sinonimi. Le macerie sono afone, non raccontano più nulla. Le rovine, invece, sono eloquenti, raccontano ancora storie a chi ha orecchie per ascoltarle. Non sono storie inutili. Tu lo hai detto e scritto tante volte ai tuoi fratelli. Hai detto che dall’identità viene l’ideazione, che dal passato si produce il futuro, che la memoria suscita la creatività, che dalla decadenza e dalle rovine fiorisce la rinascita. Hai scritto che non può esserci estetica senza etica. Hai scritto che una città muore anche quando gli abitanti perdono la memoria di sé, e senza nemmeno accorgersene diventano stranieri a se stessi, nemici di se stessi. Ebbene, voglio ringraziarti, Salvatore, per quanto hai fatto per noi. Per me e per tutte le altre rovine della Terra. Perché se stiamo ancora qui, se siamo scampate all’oblio, se non siamo divenute macerie, lo dobbiamo anche a te. Anche a te dobbiamo il fatto che siamo eloquenti e che le nostre storie sono state tramandate. Almeno nella memoria, le rovine, anche grazie a te, sono salve per sempre.

Sai Salvatore, da qualche tempo accadono cose strane in questa piega fra i monti della Calabria. Degli umani diversi da tutti gli altri che ho conosciuto negli ultimi secoli, girano qui intorno, osservano meravigliati, studiano, raccontano storie, mi accudiscono come si fa con un anziano genitore. E, la cosa più curiosa, hanno imparato ad ascoltare la mia voce: la voce delle pietre! In certi momenti vengono tutti insieme, e parlottano fra loro, applaudono, si scambiano libri, cibo, prodotti dell’artigianato. Altre volte vengono da soli, a pregare. Alcuni, poi, arrivano da lontano, in lunghe file colorate, con zaini sulle spalle. Fanno anche degli strani fracassi con strumenti musicali. E saltano come grilli impazziti per ore, fino a notte fonda. Sento che questi umani mi vogliono bene. E che fra queste mura, fra questi prati, essi diventano, anzi tornano ad essere felici. Perché un tempo, quando si era poveri e la vita era dura, gli umani sorridevano di più. Ed erano capaci, molto più di ora, di sopportare con gratitudine la fatica, i disagi, le sofferenze. E’ come se questi umani-alieni fossero tornati indietro nel tempo, avessero riscoperto valori antichi, quali la memoria, appunto, la convivialità, la solidarietà, l’operosità, la sobrietà, il senso di una comunità, che non è fatta solo di persone, ma anche di montagne, acque, rocce, alberi, erba, fiori, animali. E di segni, come me, di una cultura che desidera solo l’armonia e la bellezza.

Non la faccio lunga, Salvatore. So che c’è gente lì che vuole festeggiarti. E che tra loro vi sono alcuni di quegli umani-alieni di cui ti ho appena parlato. Di’ loro, ti prego, qualche parola di conforto. Incoraggiali a restare, a tornare sempre da me, da noi, dalle rovine che tu ami tanto. E che loro hanno imparato ad amare attraverso te.

Con gratitudine.

L’abbazia di Corazzo.       

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