Il paesaggio raccontato ai miei figli

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

© RIPRODUZIONE RISERVATA

francesco_bevilacqua.jpgVoi non potete sentirmi, la domenica mattina, quando esco di casa. E' ancora buio. Percepite nel sonno, quando vi bacio, solo quel lieve odore di resine e muschio e foglie e terra, che emana dalla mia giacca a vento. Sapete solo che starò fuori per l'intera giornata. E che tornerò a casa, la sera, strafatto dalla fatica ma felice come non mi vedete mai durante la settimana. Mi bastano pochi minuti per uscire dalla nostra piccola città. Fuori dalla pletora di case per lo più brutte che la compongono. Per entrare in una periferia disordinata, che però è anche campagna. E dalla quale, volgendo lo sguardo all'intorno, scorgo i monti e il mare. E questo è già un grande privilegio. Perché la maggioranza della gente, nel mondo, vive ammassata in grandi agglomerati urbani, dai quali non si vedono che palazzi, e strade e costruzioni a perdita d'occhio. Per uscire dai quali bisogna evadere come da una prigione. Poi percorro strade interne. Piene di curve. Che tutti odiano, perché le vorrebbero dritte e veloci. Ma che invece a me piacciono, perché ci costringono ad andar piano, ad osservare contadi, pascoli, villaggi, boschi, valli.

Poi arrivo dove spengo il motore dell'auto e comincio la mia avventura, la mia festa, la mia messa domenicale. A piedi. Rigorosamente a piedi. Da quel momento, la vista spazia sempre più in largo. L'orizzonte si apre verso l'infinito. Senza impedirmi, però, di percepire i particolari vicini. Un rudere dove per secoli hanno abitato pastori. Uno stazzo abbandonato che sembra risuonare dei belati e degli abbai. Un sentiero calpestato da tempi remoti. Un'aia tonda dove si spulava il grano. Un albero gigantesco che l'uomo ha risparmiato. Sotto cui trova riparo il contadino, nell'ora panica, quando il sole brucia, ed egli teme d’esser rapito dagli spiriti dell'aria. A volte incontro rovine di interi villaggi abitati da fantasmi, disseminate di oggetti abbandonati. Altre mi imbatto negli stessi pastori cantati da Teocrito, dai volti abbronzati e solcati da rughe. Altre assisto allo spettacolo immaginifico dell'acqua che scorre. E tutto questo nel silenzio e nella solitudine. Ma quel silenzio e quella solitudine non sono afoni.

Sono eloquenti invece. Parlano, raccontano, narrano. Non di rado, ai segni commossi del lento adattamento dell'uomo alla natura, si aggiungono gli scempi prodotti dalla violenza dell'uomo sulla natura. A volte, all'emozione per la bellezza, si sovrappone la vergogna di appartenere al genere umano. Ecco, tutto questo – e molto altro - miei cari, è paesaggio. Non solo quel che vive intorno agli uomini, ma anche quel si cela nel cuore degli uomini. Non solo le pieghe della terra ma anche le rughe dei volti. Non solo le case e i paesi ma anche gli alberi, le rocce, le acque, gli animali. Non solo il fruscio del vento, ma anche le storie, i miti, i riti, le fiabe. Perché il paesaggio non è una cartolina, non è un panorama, non è un veduta. Perché il paesaggio è una condizione dell’anima.  

© RIPRODUZIONE RISERVATA